Con
l'incedere dell'estate, stagione di partenze, viaggi, arrivi,
incontri e vita all'aria aperta, il paradosso più grande sta nel
senso di solitudine che può accompagnarsi a questo apparente
risveglio di occasioni e possibilità.
Addentrandoci
nella psicologia del profondo, già la parola “vacanza” nella sua
etimologia, rimanda a un vuoto (dal latino vacuum
) per cui è possibile che si attivino, soprattutto in persone
sensibili al tema dell'abbandono, dei sentimenti di disagio e
insofferenza.
L'andare
in vacanza è un tempo della sospensione e di un ritmo altro, da
esprimere con attività di tenore diverso da quelle del lavoro... ma
è anche il tempo delle scelte, libere dal dover essere quotidiano,
più a contatto col bisogno e il desiderio.
È
comunque il tempo di una frattura, una separazione fra un modus
vivendi e un altro, cui spesso è riservato il compito di divertire,
alleggerire, divagare.
È
il passaggio da una sorta di stabilità-continuità a un momento di
trasformazione-cambiamento.
Ci
sono persone che tollerano male la sospensione del quotidiano, mentre
ce ne sono altre che necessitano spasmodicamente di una pausa, dove
tentare di annullare tutto ciò che assilla durante il resto
dell'anno, attraverso attività di tutt'altra natura.
Si
tratta di due estremi opposti su uno stesso continuum che va però da
un pieno di lavoro all'altro pieno di cose da fare.
Il
vuoto e il senso di solitudine che ne deriva spaventa.
Molte
persone in terapia ammettono: “non mi piace stare da solo/a perché
poi penso a ciò che non voglio...” con la conseguenza che nei
momenti di pausa finiscono per avere (infliggersi) mille impegni e
incombenze per non pensare.
Oggi
ho deciso quindi di scrivere un piccolo elogio della solitudine,
partendo da una foto, creando un frammento di vita che aiuti a
riflettere sulle molte possibilità che attraversano i momenti di
spazio individuale.
(foto scattata a Brooklyn, 2010)
È
la fine, ho pensato questa mattina.
Il
primo di quindici giorni da passare da sola.
È
la mia prima volta, nonostante gli anni che ho non siano più quelli
vergini di quando “primo” evocava anche “eccitante”.
In
realtà sono terrorizzata e annichilita.
Nei
mesi passati sapevo che questo momento sarebbe arrivato, ma mi
illudevo che vi sarei giunta preparata, oppure che il tempo avrebbe
contribuito a sanare le ferite che sono più taglio vivo che ricordo
sbiadito.
Sto davanti
a queste grandi finestre nell'attesa di trovare il coraggio di
uscire e vivere di nuovo: resto seduta a guardare un mondo che mi
pare estraneo e lontano.
Quando
me ne sono andata di casa – dalla nostra casa – ho provato un
guizzo di vita, un anelito di libertà che è durato troppo poco.
Speravo
che riempiendo i giorni di impegni non avrei sentito la mancanza.
Invece
eccomi qua.
Mesi
alle spalle e un grande vuoto.
Mi
sento sola, anche se qui intorno percepisco corpi e voci che ignoro.
Un
pesce rosso perduto in una palla di vetro.
Che
senso può avere la vita se la guardi da una lastra sottile?
Ho
paura di perdermi là fuori.
E
temo di ferirmi di più se permetto a qualcuno di entrare nel mio
triste acquario.
Dove
è finito quel guizzo? Dove si è perso lo slancio di fuga? Sono
davvero un povero pesce in prigione? Eppure credevo che il peggio
fosse passato.
Credevo
che andare lontano mi riparasse dal dolore, invece lo ha amplificato.
Nuoto
nel ricordo denso e melmoso e non mi resta altro che attraversarlo,
riconoscerlo e sentirlo fino in fondo.
Realizzo
adesso che posso ripartire solo da qui.
Ricomincio
da me, dal mio tempo che non è un vuoto da riempire ma uno spazio da
vivere.
Buona
settimana
virginia
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