Nella stanza di terapia si parla spesso e
inevitabilmente della vita di coppia.
Mentre all'inizio della mia professione
mi trovavo a simpatizzare con posizioni donchisciottesche che
miravano al senso di giustizia assoluto, col tempo che passa e
grazie alle storie di vita alle quali mi è concesso partecipare, mi
rendo sempre più conto di quanto sia necessario relativizzare e
contestualizzare certe scelte.
Lavorando da anni con donne in situazione
di dipendenza affettiva, se non addirittura vittime di violenza, la
reazione più sana e immediata sarebbe quella di dire “scappa da
lì!” ma negli anni ho dovuto invece fare i conti con i tempi
interiori delle persone.
Io ci sono, facciamo un percorso insieme,
ma quello che per qualcuna può essere una scelta possibile e
immediata, per altri può rappresentare l'obiettivo finale di un
percorso lungo e accidentato, con tappe intermedie, decisioni
provvisorie e ricadute ma altrettanto importanti se viste da un punto
di vista di insieme.
Ed è proprio da questa prospettiva
globale che a volte dobbiamo guardare alle cose in terapia, ovvero
riuscire a osservare certi eventi sia dall'interno che dall'esterno,
ma in maniera obiettiva, fuori dal giudizio.
Mi riferisco anche a errori, tradimenti,
bugie e tutto ciò che nel senso comune viene visto con sospetto.
Avere una visione adulta della vita a
due significa proprio uscire dall'idillio del sogno infantile
della coppia perfetta e del “vissero felici e contenti” e
riuscire ad affrontare insieme tutte le fasi che lo stare insieme
comporta, ammettendo prima in se stessi e poi accettandolo
nell'altro, che non è tutto facile come vediamo nei film
dell'adolescenza.
Negli ultimi mesi, nonostante i miei
buoni propositi di inizio anno non ce l'ho fatta a
dedicarmi alla scrittura come avrei voluto (almeno qui sul blog,
perché in realtà ho scritto altro, ma ancora è un progetto in
divenire ;) ) però nel frattempo non ho smesso di leggere e oggi
voglio condividere alcune riflessioni a partire da un libro che ha
avuto molto successo lo scorso inverno negli Stati Uniti.
Si tratta di “Fato e Furia” di
Lauren Groff.
È un romanzo che parla della vita di una
coppia, da quando si è formata fino alla fine.
E allo stesso tempo racconta della vita
di ciascun membro di questa coppia.
Nella prima metà del libro assistiamo
agli eventi secondo il punto di vista di lui, ne conosciamo i
dettagli della storia personale, dalla famiglia di origine,
l'infanzia e l'adolescenza, i traumi e le coincidenze che lo hanno
portato a conoscere lei e la loro vita insieme.
Conosciamo anche lei, ma dal punto di
vista di lui.
Mentre nella seconda parte la situazione
si capovolge, le origini e l'infanzia di lei, l'adolescenza fino
all'incontro con lui e la loro vita insieme.
Conosciamo anche lui, ma visto da lei.
Nella trama della loro storia ci
imbattiamo in difficoltà, scelte (o non scelte), episodi
significativi che cambiano l'esistenza di entrambi, e a seconda di
chi lo racconta, ci si trova a provare sentimenti ambivalenti o
addirittura opposti.
Quello che nella prima parte ci aveva
commosso, nella seconda può farci infuriare e viceversa. Quello che
a prima vista sembrava un sacrificio mosso dall'amore, può risultare
una necessità dettata dalla sopravvivenza. Ciò che ha permesso
all'uno di diventare se stesso cela segreti inconfessabili
dell'altro.
In questo libro sono esposti gli
innumerevoli e contrastanti vissuti dell'animo umano anche da un
punto di vista super partes, con dei superbi incisi fra parentesi che
ricalcano le voci del coro della tragedia greca.
Ho trovato questa storia l'esempio
calzante per esprimere ciò che vi ho scritto in apertura.
Chi decide alla fine di una vita ciò che
è giusto o sbagliato? Ma soprattutto giusto o
sbagliato per chi?
Se ci soffermiamo sui se e i ma,
facciamo davvero il nostro bene?
Esiste un bene di quella coppia, di
quella famiglia, di ogni singola persona che la compone, e chi decide
quale deve prevalere o meno?
Non esistono risposte univoche a queste
domande, che sono esistenziali, sondano significati profondi ma ci
possono insegnare a “planare sulle cose dall'alto, senza macigni
sul cuore” come suggeriva Italo Calvino nelle sue “Lezioni
Americane” (1988).
Infondo, anche la terapia – come la
letteratura – non consiste in quest'opera continua di “sottrazione
di peso” provando a raggiungere quella che lui definisce una
leggerezza pensosa? (ibidem, pag. 14)
Nei mesi scorsi ho visto anche un film,
molto intenso e controverso: 45 anni (2015) con
l'impareggiabile Charlotte Rampling (qui il trailer)
Anche qui una coppia a pochi giorni dal
loro quarantacinquesimo anniversario di matrimonio. In questa
atmosfera di rassicurante quotidianità, arriva una lettera dal
passato del marito a sconvolgere gli animi e tutto è improvvisamente
rimesso in discussione.
Di nuovo – guardando il film –
sentivo impellente la necessità di aprire gli orizzonti.
Se ci si sofferma solo sul
dettaglio, si rischia di perdere di vista il valore dell'insieme.
E quando l'insieme è una vita intera, è
un rischio molto grande.
Ma soprattutto non dobbiamo perdere di
vista che dentro ogni noi ci sono due io, che non
perdono valore se il noi si sfalda. Noi esistiamo e abbiamo
significato a prescindere dallo sguardo dell'altro che ci riconosce
(che sia il genitore prima, gli amici dopo e il compagno/a poi).
La vita è fatta di molte sfaccettature e
ognuno fa del proprio meglio per attraversarla.
Sarà difficile, anche doloroso e
insopportabile, ma se c'è una cosa che sento profondamente giusta
è il fare di tutto per provare a vivere e non sopravvivere.
Ognuno a suo modo. Ognuno come può.
« Ognuno sta solo sul cuor della
terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera. »
(S.
Quasimodo, 1930)
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