lunedì 16 gennaio 2017

La neve se ne frega



Lo scorso giovedì sono uscita dallo studio e ad attendermi fuori dalla porta c'erano milioni di fiocchi ghiacciati che scendevano lenti lenti dal cielo.
L' impatto è stato quello che si ha ogni volta che cade la prima neve: un senso di stupore e smarrimento insieme, perché quel bianco improvviso altera i punti di riferimento di un paesaggio conosciuto.
Anche Golem si guardava in giro un po' frastornato, col naso all'insù a cogliere i nuovi odori che quell'aria lattiginosa portava con sé.

È stato un viaggio di ritorno a casa diverso dal solito, la mezz'ora è diventata quasi un'ora, la strada conosciuta, ma piena di dislivelli, l'ho modificata con un'altra più sicura, il telefono che di solito mi permette di sentire voci amiche ha lasciato spazio alla musica, perfetto sottofondo per una serie di riflessioni su quel momento magico.

La neve ci concede (e ci obbliga) a rivedere alcuni aspetti della nostra esistenza che di solito viviamo in automatico.
Per prima cosa il tempo.
Mentre la nostra parte infantile reagisce sempre con meraviglia alla nevicata, la parte adulta ne vede subito dopo le rotture, i disagi, la perdita di tempo prezioso appunto.
Abbiamo la percezione che questa corsa a perdifiato che è la nostra quotidianità venga irrimediabilmente danneggiata da questa scocciatura metereologica.
Il dato oggettivo è sicuramente che subiamo una alterazione alla normale routine, che siamo costretti ad annullare qualche appuntamento, magari a non andare al lavoro, oppure ad andarci di più (penso ai manutentori delle strade) ma alla fine non è niente di inaffrontabile o irreparabile.
Per alcuni può addirittura rappresentare la possibilità di una pausa, un momento da dedicarsi.

Poi l'attenzione.
Camminare sotto la neve ci porta a dover essere cauti sui nostri passi per non cadere o scivolare, per non affondare e trovare qualcosa di inaspettato.
Ci fa muovere passi in un territorio che diventa sconosciuto anche se lo sappiamo a memoria.
Ma anche ci fa osservare diversamente quello che ci circonda.
Tutto si trasforma: i colori, gli spessori, le consistenze, i suoni.
Il riflesso candido porta a osservare di più, perché anche un ambiente cittadino, ricoperto dal manto bianco, sembra più vicino alla natura, spettacolo unico ai nostri occhi abituati all'asfalto e cemento.

E dall'osservare fuori, è inevitabile farlo anche dentro, dunque infine arrivare all' l'introspezione.
Passeggiare o guidare sotto la neve ci avvicina a noi stessi, ci fa guardare con calma ciò che si muove dentro, perché l'atmosfera ovattata permette il risuonare dei vissuti.
Ci sono volte in cui il freddo fuori rispecchia quello interiore, momenti difficili che vanno attraversati con cautela, altre in cui all'esterno ci sono temperature polari ma sei talmente pervaso da un fuoco interiore che tutto è relativo.
Oppure semplicemente vorresti che quel momento restasse eterno, coi fiocchi che scendono e impediscono al tempo di proseguire.
A mio avviso, i poeti che maggiormente riescono a dare testimonianza di questa unione fra l'uomo le emozioni e la natura sono i maestri degli Haiku giapponesi.
Versi semplici che con poche parole riescono a sintetizzare immagini sublimi.

Musica di neve
grillo d'inverno
sotto i miei passi
(Yuko)

Solo perché esisto
sono qui
tra la neve che cade
(Issa)

Forse la nevicata, fra i fenomeni naturali, è quello che maggiormente ci mette in contatto con l'anima.
La lentezza con cui cade ci contamina e affascina, sospendendo un ritmo che spesso ci travolge.
Copre senza nascondere del tutto. Ci siamo ma possiamo anche non esserci.
Riflette e abbacina quando ritorna il sole, dissolvendosi poi col suo calore.
Ci ricorda così che nessun gelo dura per sempre.

Buona settimana
virginia

ps. Seguendo il tema del giappone, una storia poetica è raccontata nel libro “Neve” di Maxence Fermine (Bompiani, 2008) 
Oppure una poesia in musica la trovate qui sotto 


lunedì 9 gennaio 2017

A cosa servono i sintomi?


Ho trovato di recente questa acuta vignetta di Cavezzali che mi ha fatto venire in mente l'argomento di cui voglio parlarvi oggi.

Ognuno è amico della sua patologia” scriveva Alda Merini, superba poetessa incompresa e rinchiusa in manicomio: quante verità invece erano racchiuse nei suoi versi!
Cominciamo però da principio.

È innegabile che qualora si presenti un sintomo, chiunque lo viva come un disagio, un forte limite e una sofferenza.
Già Freud spiegava che il sintomo non era altro che l'espressione di un conflitto psichico in atto nella persona, e la sofferenza associata ne era il risultato operato dal meccanismo di rimozione – che impediva di soddisfare altrimenti il bisogno alla base della pulsione libidica.
In parole semplici, se un impulso (sessuale o aggressivo, nell'interpretazione psicanalitica) è inaccettabile come fonte di piacere, viene trasformato inconsciamente in angoscia perché sia possibile, prima sentirlo, coglierlo e poi rifiutarlo.
Immaginiamoci due forze pari e contrarie: da una parte l'energia che chiede di essere espressa che preme da dentro, dall'altra l'energia della repressione (che opera in maniera automatica e inconscia) che preme da fuori e che vuole rimettere al proprio posto quell'aspetto vitale vissuto come “sbagliato”. La risultante di questo incontro di forze diventa il sintomo, unica via di compromesso per riuscire a esprimere entrambe, ma allo stesso tempo testimonianza del conflitto in atto.

La sofferenza che accompagna il sintomo è paradossalmente un primo modo per alleviare questo scontro di forze, perché gli dà voce, quindi genera una sorta di appagamento.
Mi fermo qui nella disamina tecnica perché mi rendo conto che per chi non è del settore questi siano solo sterili concetti, e mi soffermerò solo su un aspetto che può aiutarci a comprendere meglio a cosa serva il sintomo-sofferenza.
Proprio come ci dice la acuta vignetta di Cavez, spesso il sintomo diventa parte dell'identità della persona, perché se è nato significa che fino ad un certo punto è servito a qualcosa, ha avuto una funzione nella vita della persona.

Lo scopo della terapia diventa allora scorgere questa funzione, in altri termini permettergli di esprimersi in altre forme, per non dover necessariamente ricorrere a quelle conosciute e disfunzionali – oltre poi a cercare di trovare un appagamento sano per gli impulsi e parti di sé inaccettate.
“Guarire” non significa dunque sopprimere o togliere i sintomi, quanto piuttosto aiutare i desideri sottesi a essi a esplicitarsi e trovare un loro spazio nella vita della persona, perché solo in questo modo il sintomo semplicemente non avrà più ragion d'essere.

A volte però, nel processo di soluzione (dal latino “solvo” ovvero scioglimento) del problema che porta in terapia, si assiste a una recrudescenza del sintomo, al permanere della sofferenza nonostante si sia dato voce a ciò che era celato fra le righe.
In questi casi bisogna con cautela interrogarsi sul beneficio secondario che un sintomo può portare con sé, spesso fin dal principio.
L'eventuale tornaconto secondario si rivolge frequentemente agli altri, diventa un “valore aggiunto” nell'ottenere indirettamente qualcosa che altrimenti si penserebbe di non poter avere.
Vi farò un esempio per chiarire questo punto, dovendolo come sempre semplificare un po': se la persona che ha attacchi di panico ogni volta “ottiene” di avere vicino qualcuno (un genitore, il coniuge ecc...) e ipotizzando che nella sua vita questa attenzione non l'abbia mai avuta, ecco che un motivo inconscio per il mantenimento del sintomo potrebbe essere finalmente l'essere al centro delle cure delle persone di cui ha bisogno.
Se vogliamo complicarla ulteriormente, potrebbe anche succedere che quella persona sofferente, da una parte ottenga l'attenzione mai avuta, ma magari subito dopo un attacco o una accusa da parte degli stessi personaggi familiari. Se questa modalità aggressiva è quella abituale da parte loro, non fa altro che riattualizzarsi una sofferenza antica che potrebbe portare a esacerbare ancora di più il sintomo-sofferenza per inconsciamente provare a riportare l'attenzione ai suoi bisogni di cura e accudimento.
Mi preme puntualizzare l'aggettivo “inconscio”: la persona non è consapevole del processo, non lo fa in maniera manipolatoria e volontaria, risponde piuttosto in maniera inconsapevole a bisogni infantili negati e repressi che finalmente trovano appagamento.
In tal caso, lo svelamento di queste necessità e la loro soddisfazione in modi adulti permetterà il definitivo scioglimento del disagio.

Non c’è presa di coscienza senza sofferenza.
In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo
per evitare di confrontarsi con la propria anima.

Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce,
ma portando alla coscienza l’oscurità interiore.

Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia.

(Carl Gustav Jung)

Buona settimana... e Buon anno!
virginia