Ho trovato di recente questa acuta
vignetta di Cavezzali che mi ha fatto venire in mente l'argomento di cui
voglio parlarvi oggi.
“Ognuno
è amico della sua patologia”
scriveva Alda Merini, superba poetessa incompresa e rinchiusa in
manicomio: quante verità invece erano racchiuse nei suoi versi!
Cominciamo però da principio.
È innegabile che qualora si presenti un
sintomo, chiunque lo viva come un disagio, un forte limite e una
sofferenza.
Già Freud spiegava che il sintomo non
era altro che l'espressione di un conflitto psichico in atto nella
persona, e la sofferenza associata ne era il risultato operato dal
meccanismo di rimozione – che impediva di soddisfare altrimenti il
bisogno alla base della pulsione libidica.
In parole semplici, se un impulso
(sessuale o aggressivo, nell'interpretazione psicanalitica) è
inaccettabile come fonte di piacere, viene trasformato inconsciamente
in angoscia perché sia possibile, prima sentirlo, coglierlo e poi
rifiutarlo.
Immaginiamoci due forze pari e contrarie:
da una parte l'energia che chiede di essere espressa che preme da
dentro, dall'altra l'energia della repressione (che opera in maniera
automatica e inconscia) che preme da fuori e che vuole rimettere al
proprio posto quell'aspetto vitale vissuto come “sbagliato”. La
risultante di questo incontro di forze diventa il sintomo, unica via
di compromesso per riuscire a esprimere entrambe, ma allo stesso
tempo testimonianza del conflitto in atto.
La sofferenza che accompagna il sintomo è
paradossalmente un primo modo per alleviare questo scontro di forze,
perché gli dà voce, quindi genera una sorta di appagamento.
Mi
fermo qui nella disamina tecnica perché mi rendo conto che per chi
non è del settore questi siano solo sterili concetti, e mi
soffermerò solo su un aspetto che può aiutarci a comprendere meglio
a
cosa serva
il sintomo-sofferenza.
Proprio come ci dice la acuta vignetta di
Cavez, spesso il sintomo diventa parte dell'identità della persona,
perché se è nato significa che fino ad un certo punto è servito a
qualcosa, ha avuto una funzione nella vita della persona.
Lo scopo della terapia diventa allora
scorgere questa funzione, in altri termini permettergli di esprimersi
in altre forme, per non dover necessariamente ricorrere a quelle
conosciute e disfunzionali – oltre poi a cercare di trovare un
appagamento sano per gli impulsi e parti di sé inaccettate.
“Guarire”
non significa dunque sopprimere o togliere i sintomi, quanto
piuttosto aiutare i desideri sottesi a essi a esplicitarsi e trovare
un loro spazio nella vita della persona, perché solo in questo modo
il sintomo semplicemente non avrà più ragion d'essere.
A
volte però, nel processo di soluzione (dal latino “solvo”
ovvero scioglimento) del problema che porta in terapia, si assiste a
una recrudescenza del sintomo, al permanere della sofferenza
nonostante si sia dato voce a ciò che era celato fra le righe.
In questi casi bisogna con cautela
interrogarsi sul beneficio secondario che un sintomo può portare con
sé, spesso fin dal principio.
L'eventuale tornaconto secondario si
rivolge frequentemente agli altri, diventa un “valore aggiunto”
nell'ottenere indirettamente qualcosa che altrimenti si penserebbe di
non poter avere.
Vi farò un esempio per chiarire questo
punto, dovendolo come sempre semplificare un po': se la persona che
ha attacchi di panico ogni volta “ottiene” di avere vicino
qualcuno (un genitore, il coniuge ecc...) e ipotizzando che nella sua
vita questa attenzione non l'abbia mai avuta, ecco che un motivo
inconscio per il mantenimento del sintomo potrebbe essere finalmente
l'essere al centro delle cure delle persone di cui ha bisogno.
Se vogliamo complicarla ulteriormente,
potrebbe anche succedere che quella persona sofferente, da una parte
ottenga l'attenzione mai avuta, ma magari subito dopo un attacco o
una accusa da parte degli stessi personaggi familiari. Se questa
modalità aggressiva è quella abituale da parte loro, non fa altro
che riattualizzarsi una sofferenza antica che potrebbe portare a
esacerbare ancora di più il sintomo-sofferenza per inconsciamente
provare a riportare l'attenzione ai suoi bisogni di cura e
accudimento.
Mi preme puntualizzare l'aggettivo
“inconscio”: la persona non è consapevole del processo, non lo
fa in maniera manipolatoria e volontaria, risponde piuttosto in
maniera inconsapevole a bisogni infantili negati e repressi che
finalmente trovano appagamento.
In tal caso, lo svelamento di queste
necessità e la loro soddisfazione in modi adulti permetterà il
definitivo scioglimento del disagio.
Non c’è presa di coscienza senza
sofferenza.
In tutto il mondo la gente arriva ai
limiti dell’assurdo
per evitare di confrontarsi con la
propria anima.
Non si raggiunge l’illuminazione
immaginando figure di luce,
ma portando alla coscienza l’oscurità
interiore.
Chi guarda fuori sogna, chi guarda
dentro si sveglia.
(Carl Gustav Jung)
Buona settimana... e Buon anno!
virginia
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