lunedì 11 dicembre 2017

il coraggio del cambiamento



Il cambiamento è ciò che maggiormente cerchiamo e allo stesso tempo temiamo nelle nostre vite.
Molte delle richieste di colloquio nella stanza di terapia avvengono da parte di persone che si trovano in questa vischiosa terra di mezzo: guardando indietro ci sono molte cose che non rendono più felici, non sono più soddisfacenti e appaganti per la persona che siamo oggi, ma guardando avanti c'è solo l'incognita di qualcosa di sconosciuto, densa di molti interrogativi sulla persona che vogliamo diventare.

Nel mio lavoro osservo che quando questo processo è in atto, in realtà è qualcosa di irreversibile: qualcuno ci prova a non vedere, non sentire, non agire, ma la spinta diventa in questo modo sempre più intensa e rischia di diventare un sintomo-sofferenza che chiede di essere ascoltato, spesso a qualsiasi costo.

Dove nasce la difficoltà di cambiare?
Penso che nasca dalla convinzione/bisogno infantile di credersi coerenti e sicuri nell'identificarsi con aspetti di sé conosciuti e irrevocabili.
Vi spiego meglio.

Quando siamo piccoli cominciamo a conoscere il mondo e noi stessi alla ricerca di punti fermi che ce lo rendano meno pericoloso e incerto.
Apprendiamo che se siamo in un certo modo o ci comportiamo in una data maniera, accadrà qualcosa di prevedibile e diciamo “controllabile” a priori.
Quindi cominciamo a mettere in atto strategie di adattamento che nel tempo diventano copioni di vita.
In parole semplici, ripetiamo quello che ha funzionato.

Facciamo un esempio.
Di fronte a una certa persona so che se voglio evitare lo scontro devo agire in quel modo che conosco perché l' ho testato nel tempo.
Magari il mio bisogno di evitare il litigio è nato quando ero piccolo e non avrei avuto la possibilità di spuntarla rispetto a un genitore che imponeva il suo volere (sia in maniera diretta con i veti, ma anche in maniera indiretta, dimostrandosi a sua volta bisognoso o sofferente).
Da lì, in maniera automatica, ogni volta che mi trovo con una persona simile nei comportamenti e atteggiamenti al genitore tenderò a riproporre lo stesso schema, anche se oggi potrei fare altrimenti.
Il bisogno prevalente di evitare il conflitto fa parte di quelli infantili, perché legati al timore di perdere l'amore o essere rifiutati da coloro dai quali dipendiamo.
Ma allo stesso tempo, tenendo conto solo di quello, rinunciamo ad altri tipi di bisogni che c'erano già nell'infanzia e che nel tempo si strutturano e maturano con noi, come il bisogno di affermare se stessi, essere rispettati per le nostre posizioni, essere riconosciuti nelle nostre necessità di autorealizzazione.
Semplificando, finiamo per comportarci con il partner, il capo o un amico, come ci comportavamo a cinque anni con il genitore in questione.
La convinzione sottostante e inconscia che fa agire così potrebbe essere una cosa del tipo “non posso litigare con te perché...” “mi schiaccerai/ mi rifiuterai/ ti distruggerò/ finirà tutto/ non l'avrò mai vinta...” ecc... a seconda dell'esperienza dell'infanzia percepita.

Finché il copione e le relative convinzioni restano inconsci, nessun cambiamento sarà possibile.
Nella terra di mezzo dell'insoddisfazione riusciremo a sentire che qualcosa dentro si ribella ma non saremo in grado di dargli spazio come dovremmo.
Perché questo spazio è la parte adulta che deve autorizzarselo.
Occorre modificare il punto di vista, da quello immaturo a quello maturo.
La parte adulta si può concedere un comportamento differente perché sfatando i miti dell'infanzia, si accorge che non accadrà nulla di così catastrofico.
Ma soprattutto può fare esperienza diretta che si può sopravvivere – anzi, vivere meglio – anche senza quelle rigide convinzioni che attanagliano, scoprendo che nella mancanza di certezze, la vita acquista finalmente fluidità e creatività.

lunedì 30 ottobre 2017

A gambe all'aria



Un po' di tempo fa vi ho parlato della mia passione di fotografare finestre e panni stesi ad asciugare (qui).
Qualche weekend fa, durante una gita a Chioggia ho immortalato questo scorcio di calle che mi ha affascinato per questo curioso modo di stendere i pantaloni sul filo sospeso.
Subito mi è sorto un titolo “Gambe all'aria” e immediatamente si sono accavallate dentro di me associazioni di tenore opposto: da un lato mi ha fatto sorridere e dall'altro no.
Nell'uso comune si è soliti indicare con questa espressione una caduta improvvisa che dopo averti tolto l'equilibrio ti manda letteralmente col sedere per terra se non a capo all'ingiù.
Fa pensare a una gag ironica o anche a un ruzzolone infantile.
Ma cosa succede quando a gambe all'aria ci andiamo perché qualcosa o qualcuno ci scaraventa a terra con una forza che ci travolge?
Nella mia stanza di terapia accolgo molte persone che si trovano metaforicamente in questa situazione.
A volte si rivolgono a me subito dopo essersi rialzati, doloranti e ammaccati, ma capaci di camminare ancora con le proprie gambe.
Altre volte invece mi trovo ad intervenire ancora prima, come se potessi avvicinarmi a quella persona ancora a terra e con manovre di cautela – proprio come accade in quelle scene che cogli passando per strada dopo un incidente d'auto o moto – accertarmi che sia possibile qualche movimento, per poi curare le ferite e pian piano tornare a camminare di nuovo.
Sono molti gli eventi della vita che “obbligano” a cadute, soste prolungate, superamento di ostacoli o cambiamenti di rotta.
Il filo sospeso che tiene insieme tutte queste situazioni è quello della sofferenza e del dolore.
Aggancia identità e storie senza un criterio apparente, lasciando senza fiato chi si trova catapultato “ad inferos”.
Qualcuno pensa che sia la disfatta e si arrende, qualcun altro lotta con tutte le proprie forze anche se si sente come una tartaruga capovolta che non trova più la via per raddrizzarsi.
Ed è proprio questa metafora che mi ha fatto venire in mente una vignetta che avevo salvato molto tempo fa



Quella che all'apparenza può sembrare un messaggio ilare e fin troppo ottimistico, nasconde una grande verità.
Quando siamo simbolicamente a gambe all'aria, se non ci lasciamo sopraffare dall'ansia e dallo sconforto, o magari subito dopo esserci lasciati sopraffare e averli elaborati, ci possiamo rendere conto che da lì si possono osservare le cose da una diversa prospettiva.
Qualcuno mi dice “tutto questo in realtà c'era anche prima ma io non lo coglievo, o non volevo coglierlo” oppure “in tutta questa situazione ho scoperto mie risorse (o persone vicino a me) che non avrei mai creduto possibili” e ancora “una volta attraversata questa crisi che all'inizio combattevo, ho capito che era necessaria per cambiare finalmente in maniera radicale molte cose che non andavano più bene o equilibri precari”.

La qualità che maggiormente si impara dopo un'esperienza che ribalta tutte le certezze è la resilienza (ne avevamo parlato anche qui) ovvero la capacità di riscoprirsi più solidi di prima, perché ciò che è accaduto ha permesso – una volta elaborato – di accedere a una maggiore riorganizzazione e armonizzazione delle proprie caratteristiche interiori.
Se siamo disposti ad aprirci a nuovi punti di vista possiamo scoprire il dono trasformativo di ogni evento, anche quello che all'apparenza sembra solo un errore, un problema o una avversità. 

buona settimana
virginia

martedì 8 agosto 2017

Sulla coppia e altre riflessioni esistenziali




Nella stanza di terapia si parla spesso e inevitabilmente della vita di coppia.
Mentre all'inizio della mia professione mi trovavo a simpatizzare con posizioni donchisciottesche che miravano al senso di giustizia assoluto, col tempo che passa e grazie alle storie di vita alle quali mi è concesso partecipare, mi rendo sempre più conto di quanto sia necessario relativizzare e contestualizzare certe scelte.
Lavorando da anni con donne in situazione di dipendenza affettiva, se non addirittura vittime di violenza, la reazione più sana e immediata sarebbe quella di dire “scappa da lì!” ma negli anni ho dovuto invece fare i conti con i tempi interiori delle persone.
Io ci sono, facciamo un percorso insieme, ma quello che per qualcuna può essere una scelta possibile e immediata, per altri può rappresentare l'obiettivo finale di un percorso lungo e accidentato, con tappe intermedie, decisioni provvisorie e ricadute ma altrettanto importanti se viste da un punto di vista di insieme.
Ed è proprio da questa prospettiva globale che a volte dobbiamo guardare alle cose in terapia, ovvero riuscire a osservare certi eventi sia dall'interno che dall'esterno, ma in maniera obiettiva, fuori dal giudizio.
Mi riferisco anche a errori, tradimenti, bugie e tutto ciò che nel senso comune viene visto con sospetto.
Avere una visione adulta della vita a due significa proprio uscire dall'idillio del sogno infantile della coppia perfetta e del “vissero felici e contenti” e riuscire ad affrontare insieme tutte le fasi che lo stare insieme comporta, ammettendo prima in se stessi e poi accettandolo nell'altro, che non è tutto facile come vediamo nei film dell'adolescenza.

Negli ultimi mesi, nonostante i miei buoni propositi di inizio anno non ce l'ho fatta a dedicarmi alla scrittura come avrei voluto (almeno qui sul blog, perché in realtà ho scritto altro, ma ancora è un progetto in divenire ;) ) però nel frattempo non ho smesso di leggere e oggi voglio condividere alcune riflessioni a partire da un libro che ha avuto molto successo lo scorso inverno negli Stati Uniti.
Si tratta di “Fato e Furia” di Lauren Groff.



È un romanzo che parla della vita di una coppia, da quando si è formata fino alla fine.
E allo stesso tempo racconta della vita di ciascun membro di questa coppia.
Nella prima metà del libro assistiamo agli eventi secondo il punto di vista di lui, ne conosciamo i dettagli della storia personale, dalla famiglia di origine, l'infanzia e l'adolescenza, i traumi e le coincidenze che lo hanno portato a conoscere lei e la loro vita insieme.
Conosciamo anche lei, ma dal punto di vista di lui.
Mentre nella seconda parte la situazione si capovolge, le origini e l'infanzia di lei, l'adolescenza fino all'incontro con lui e la loro vita insieme.
Conosciamo anche lui, ma visto da lei.
Nella trama della loro storia ci imbattiamo in difficoltà, scelte (o non scelte), episodi significativi che cambiano l'esistenza di entrambi, e a seconda di chi lo racconta, ci si trova a provare sentimenti ambivalenti o addirittura opposti.
Quello che nella prima parte ci aveva commosso, nella seconda può farci infuriare e viceversa. Quello che a prima vista sembrava un sacrificio mosso dall'amore, può risultare una necessità dettata dalla sopravvivenza. Ciò che ha permesso all'uno di diventare se stesso cela segreti inconfessabili dell'altro.
In questo libro sono esposti gli innumerevoli e contrastanti vissuti dell'animo umano anche da un punto di vista super partes, con dei superbi incisi fra parentesi che ricalcano le voci del coro della tragedia greca.

Ho trovato questa storia l'esempio calzante per esprimere ciò che vi ho scritto in apertura.
Chi decide alla fine di una vita ciò che è giusto o sbagliato? Ma soprattutto giusto o sbagliato per chi?
Se ci soffermiamo sui se e i ma, facciamo davvero il nostro bene?
Esiste un bene di quella coppia, di quella famiglia, di ogni singola persona che la compone, e chi decide quale deve prevalere o meno?
Non esistono risposte univoche a queste domande, che sono esistenziali, sondano significati profondi ma ci possono insegnare a “planare sulle cose dall'alto, senza macigni sul cuore” come suggeriva Italo Calvino nelle sue “Lezioni Americane” (1988).
Infondo, anche la terapia – come la letteratura – non consiste in quest'opera continua di “sottrazione di peso” provando a raggiungere quella che lui definisce una leggerezza pensosa? (ibidem, pag. 14)

Nei mesi scorsi ho visto anche un film, molto intenso e controverso: 45 anni (2015) con l'impareggiabile Charlotte Rampling (qui il trailer)




Anche qui una coppia a pochi giorni dal loro quarantacinquesimo anniversario di matrimonio. In questa atmosfera di rassicurante quotidianità, arriva una lettera dal passato del marito a sconvolgere gli animi e tutto è improvvisamente rimesso in discussione.



Di nuovo – guardando il film – sentivo impellente la necessità di aprire gli orizzonti.
Se ci si sofferma solo sul dettaglio, si rischia di perdere di vista il valore dell'insieme.
E quando l'insieme è una vita intera, è un rischio molto grande.
Ma soprattutto non dobbiamo perdere di vista che dentro ogni noi ci sono due io, che non perdono valore se il noi si sfalda. Noi esistiamo e abbiamo significato a prescindere dallo sguardo dell'altro che ci riconosce (che sia il genitore prima, gli amici dopo e il compagno/a poi).
La vita è fatta di molte sfaccettature e ognuno fa del proprio meglio per attraversarla.
Sarà difficile, anche doloroso e insopportabile, ma se c'è una cosa che sento profondamente giusta è il fare di tutto per provare a vivere e non sopravvivere.
Ognuno a suo modo. Ognuno come può.

« Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera. »
(S. Quasimodo, 1930)

domenica 2 luglio 2017

parole per l'anima #5





Uno dei motivi che può spingere qualcuno a chiedere il mio aiuto può essere la difficoltà ad accettare ed elaborare la fine di una storia d'amore. 
Soprattutto quelle relazioni tormentate, dove uno dei due si trova all'improvviso abbandonato senza nemmeno sapere bene il perché. 
In questi casi spesso l'altra persona è ambivalente, oscilla fra sparizioni e ricomparse, oppure afferma di volersene andare ma poi cede di fronte a richieste di spiegazioni (o risponde a provocazioni o addirittura scrive e chiama per sapere "come va").
Inutile dire che il partner lasciato tende a interpretare tutto ciò come motivi di incertezza e segnali di sentimento o attaccamento e quindi di un possibile ripensamento.
Si instaura così il meccanismo perverso del cercare modalità di contatto, del volere spiegazioni che mettano a tacere definitivamente quella voce interiore che porta a dire "ma forse infondo ci tiene".
La realtà è che l'abbandono provoca una dolorosa "sindrome dell'arto mancante" emotiva.
Come chi viene amputato di un arto percepisce per molto tempo sensazioni cenestesiche come se ciò che non c'è più ci fosse ancora, così chi viene privato della presenza di un amore continua a "vedere e immaginare" realtà che non hanno più senso di esistere. 
Tutto viene interpretato in base ai propri bisogni.


E' il tentativo di conservare e tenere ancora in vita qualcosa che ormai è impossibile da ricostruire. 


Milioni di episodi, di frasi, di gesti affollano la mente. Accompagnati da altrettanti "Perché?"
Perché quella volta mi ha detto così se poi ha fatto il contrario?
Perché adesso da la colpa a me se prima la stessa cosa la faceva lui/lei?
Perché non mi dice chiaramente che non mi vuole invece di raccontarmi che è confuso/a?
E così via secondo multiformi sfaccettature di incomprensioni.



Il problema è che accecati dal bisogno di credere qualcosa che consoli, si rischia, chiedendo all'altro, di continuare a perpetrare l'inganno.
E allo stesso tempo si ottiene la necessità più grande: non rompere il legame - anche se solo per avere risposte vaghe o rimandare il dolore definitivo.



Qualsiasi messaggio arrivi è sempre meglio che niente.
E se non arriva forse c'è stato un guasto delle linee, oppure gli è successo qualcosa di importante da non aver tempo per rispondere. Oppure avrà bisogno di tempo.
Ma intanto tu sospendi la tua vita in attesa di qualcosa che non verrà. 
O per lo meno non come vorresti tu.


L'unica cosa da fare in questi casi è guardare alla realtà per quella che è.
Poter fare a meno anche dei perché.
Non ha importanza il motivo per cui ha fatto quello che ha fatto.
Resta che non ti da ciò di cui hai bisogno per essere felice.



Invece che perdere il senno nelle domande, è più importante mettere insieme i fatti per quelli che sono stati. 


Ha senso ricostruire tutta la storia da un punto di vista obiettivo, 
affrontare il dolore che ne deriva e ripartire da sé,
 passo necessario per poter andare avanti.



Lascia andare tutto.
E vedi cosa resta.

(E se non resta, è un bene che se ne sia andato/a.
ti meriti di essere felice. Davvero.)

buona settimana
virginia 

(Fonte immagini: Pinterest)

lunedì 12 giugno 2017

Parole per l'anima #4


Questa frase dovresti ripetertela come un mantra ogni volta che ti senti condizionata dalle opinioni altrui, quando non ti senti all'altezza delle aspettative e quando pensi di non avere possibilità di cambiare le cose.
Le nostre convinzioni limitanti su noi stessi - che fanno da terreno fertile a tutte le situazioni scritte sopra - sono come un corrimano:  ti dà sicurezza, è qualcosa cui appoggiarsi per non cadere, ma ti impedisce di sperimentare nuovi percorsi, più liberi e diversi da quelli conosciuti. 


E' come vivere solo una parte di sé, lasciandone un'altra completamente in ombra e senza possibilità di espressione. Un bacino di energia e di potenzialità che insieme a tutto il resto renderebbe maggiormente onore alla tua identità.


Oppure è come avere un'altra sé addormentata, caduta nel sonno per il sortilegio infantile della non accettazione di chi ci avrebbe dovuto riconoscere in tutti i nostri aspetti.
Questo alter ego nascosto è da sostenere e alimentare comunque, con il conseguente peso che questo può diventare nel tempo... 
Spesso si attende che arrivi qualcuno che magicamente baci quell'aspetto e lo riaccetti nel mondo, invece l' unica che può avere questo potere sei tu.


Occorre dunque a un certo punto fare di quel corrimano una feritoria che permetta l'accesso ai diversi mondi interiori.
Una specie di passaggio ad inferos  ma necessario per recuperare antiche energie ipotecate e relegate nel buio.


All'inizio potrebbe essere il caos.
Il sentirsi sommersa da troppi stimoli, emozioni, sensazioni, nelle quali sembra impossibile scorgere un ordine.


Poi lentamente si riesce a mettere a fuoco una visione più obiettiva.
Il proprio punto di vista.
Sul passato, sulle esperienze, sulle persone, vicine e lontane.
Ma soprattutto su se stessi.


Quelli che consideravi solo limiti, diventeranno caratteristiche uniche e irripetibili della tua persona.
E potrai sorriderne a volte, anche con leggerezza.


Capirai che le situazioni e le persone non sono mai perfette e lineari.
Perché dovresti esserlo tu?


Sei brillante e meravigliosa così come sei, anche nelle tue imperfezioni.


Ma soprattutto perché la tua forza risiederà in questa nuova convinzione:


martedì 2 maggio 2017

parole per l'anima #3



Una cosa è certa.
Il cambiamento - come abbiamo visto qui - affascina e spaventa al tempo stesso: ci sono momenti in cui lo riteniamo necessario ma siamo anche consapevoli che non sarà indolore né semplice da attraversare.
Questo avviene quando si ha la sensazione che andando avanti così, rischiamo di essere semplici cloni di se stessi e di ripetere all'infinito comportamenti o atteggiamenti che ormai non hanno più ragion d'essere e che spesso ci portano solo sofferenze.


Ed è proprio qui che la paura attanaglia.
La tentazione sarebbe quella di nascondersi e far finta di non accorgersi dell'impellente bisogno di rinnovare e trasformare se stessi e ciò che ci circonda 
Arriva comunque il tempo in cui è necessario toccare con mano quell'energia che preme per essere vissuta ed espressa nel nostro quotidiano, perché se non le diamo spazio rischiamo che se lo prenda, magari sotto forma di sintomo


Occorre prendere consapevolezza che il nostro mondo, che magari fino ad allora aveva avuto un suo equilibrio, se non viene ampliato e integrato di nuovi aspetti rischia di farci sentire asfissiati e senza vita


Comincia dunque da qui:


Porta luce nelle zone d'ombra della tua personalità che fino ad oggi non hanno avuto spazio e modo di esprimersi.
Lascia emergere bisogni e necessità, senza giudicare, senza preoccuparti se sono o meno realizzabili subito. 
Intanto è importante portarli alla luce del sole, anche se solo con te stesso.


E poi giorno per giorno, comincia dalle piccole cose


Puoi sfidare una regola che non hai mai infranto


oppure puoi concederti di sperimentare due aspetti apparentemente contrastanti di te


L'importante è cominciare, osare piccole trasformazioni che porteranno col tempo più leggerezza e libertà 


Buona trasformazione
virginia

(fonte immagini: Pinterest)

lunedì 17 aprile 2017

Effetto Matrioska



Quando qualcuno si accinge a iniziare un percorso di terapia spesso viene assalito da un dubbio o timore: quello di dover cambiare totalmente la persona che è stata fino a poco prima (ne abbiamo già parlato anche qui).
Detto così può sembrare un paradosso.
Il motivo per cui le persone arrivano dallo psicoterapeuta in generale ha a che fare con qualcosa che nella loro vita necessita di essere trasformato o perché un sintomo sta alterando la quotidianità di un tempo o perché una fase, una relazione o esperienza è terminata e va rielaborata per poter tornare a guardare avanti.

Premesso questo appare contraddittorio il desiderio di restare tali e quali.
A volte qualcuno può arrivare ad affermare “toglimi il sintomo ma tutto il resto va lasciato così com'è”, ignorando che se quella sofferenza si è presentata è proprio perché “il resto” - inteso come quell'equilibrio che ha funzionato fino ad allora – non regge più “così com'è” e quindi è necessario trovarne uno più armonico e maturo.

Nascosta dietro questa idea di conservazione dello status quo c'è la paura della perdita, di dover abbandonare ciò che per molto tempo ha donato comunque certezze e fatto percepire il senso di sé – possono essere aspetti dell'identità ma anche legami interpersonali strutturati in un certo modo.
Esiste un pregiudizio che fare terapia voglia dire mettere in crisi il proprio mondo, rompere con alcune persone o magari accusare i familiari di errori irreparabili, da qui l'idea di dover effettuare un taglio netto con chi siamo stati e dover rinunciare alle persone e alle relazioni di sempre (soprattutto se sono o sono stati la fonte della sofferenza).

Per questo ho pensato alla metafora della matrioska per sfatare questa paura, comunque legittima.
La bambola di legno russa può diventare il simbolo per eccellenza dell'inclusione e dell'integrazione ma anche al contempo dello svelamento .

Quando qualcuno arriva in terapia è come la bambola più grande: si presenta con una identità dominante, con una storia recente da raccontare che motiva la venuta sul mio divano, poi man mano che le parole si dipanano è come se si aprisse la prima “corazza” e cominciasse a emergere anche altro, altri periodi di vita, altre storie, persone, emozioni, pensieri, tutte conservate dentro, in nuclei sempre più profondi fino ad arrivare alla matrioska più piccola, che come fosse una bambina, protetta da stratificazioni successive, narra la parte più vulnerabile e segreta di quell'esistenza.
Questa microscopica bambolina, non più riducibile, viene chiamata “seme” e mi piace pensarla come la parte unica e originale di quella persona, prima che qualsiasi evento avesse potuto influenzarla, portatrice di una energia primigenia, da recuperare per poter dare nuova linfa vitale alla vita.

Questa è la fase del togliere, dell'aprire, del guardar dentro, riscoprire, rivedere da altri punti di vista, mettere ordine e guardare dall'esterno in fila indiana quelle varie sfaccettature dell'esistenza in uno sguardo d'insieme che colga significati nascosti fino a poco prima.



Questa è anche la fase più critica, perché una volta fatto questo immane lavoro – dove si tocca con mano il dolore e la fatica con cui siamo arrivati a essere quello che siamo – si presenta il tema della perdita.
Per qualcuno può essere un sollievo e un'urgenza, per altri un incubo.
I primi vorrebbero far fuori aspetti dolorosi e inaccettati e magicamente cancellare parti della propria storia come se non fosse mai accaduta.
I secondi non vogliono rinunciare a parti dell'identità che rappresentano sicurezze – pur se fanno soffrire, perché sono conosciute – perché il futuro ignoto spaventa di più.
La soluzione, in entrambi i casi, non è buttare o eliminare, bensì includere.

Ognuno può e deve fare del materiale vivente della sua personalità, non importa se marmo, argilla o oro, un oggetto di bellezza, in cui possa manifestarsi adeguatamente il suo Sé transpersonale”
(Roberto Assagioli)

In questa frase del padre della Psicosintesi c'è tutto il processo descritto fino ad ora.
Possiamo associare il concetto di Sé transpersonale a quella bambola-seme portatrice dell'energia unica e irripetibile che va riscoperta ed espressa nel quotidiano.
È un lavoro di spoliazione ma successivamente anche di ricomposizione.
Ovvero ricollocare tutto il materiale psichico in un armonica visione che permetta il benessere.
Usando la metafora, si tratta di riunificare in una le diverse bambole di legno, con pazienza e amorevolezza, contenere tutta la stessa esperienza di prima, cogliendone ora non solo i limiti ma anche le opportunità e potenzialità.

Vi ricordate la sensazione di riprendere le varie bamboline, a partire dalla più piccola e rimetterle al loro posto, una dentro l'altra? A me dava un senso di pienezza, soddisfazione e compimento.
È quello che accade anche quando riusciamo ad accogliere e trasformare gli eventi della nostra vita in doni preziosi, potendo dar loro una collocazione, permettendo alla parte più adulta e matura di integrarli nel disegno più ampio di senso personale.



È finalmente il sentirsi completamente “a casa”.

buona settimana
virginia