lunedì 17 aprile 2017

Effetto Matrioska



Quando qualcuno si accinge a iniziare un percorso di terapia spesso viene assalito da un dubbio o timore: quello di dover cambiare totalmente la persona che è stata fino a poco prima (ne abbiamo già parlato anche qui).
Detto così può sembrare un paradosso.
Il motivo per cui le persone arrivano dallo psicoterapeuta in generale ha a che fare con qualcosa che nella loro vita necessita di essere trasformato o perché un sintomo sta alterando la quotidianità di un tempo o perché una fase, una relazione o esperienza è terminata e va rielaborata per poter tornare a guardare avanti.

Premesso questo appare contraddittorio il desiderio di restare tali e quali.
A volte qualcuno può arrivare ad affermare “toglimi il sintomo ma tutto il resto va lasciato così com'è”, ignorando che se quella sofferenza si è presentata è proprio perché “il resto” - inteso come quell'equilibrio che ha funzionato fino ad allora – non regge più “così com'è” e quindi è necessario trovarne uno più armonico e maturo.

Nascosta dietro questa idea di conservazione dello status quo c'è la paura della perdita, di dover abbandonare ciò che per molto tempo ha donato comunque certezze e fatto percepire il senso di sé – possono essere aspetti dell'identità ma anche legami interpersonali strutturati in un certo modo.
Esiste un pregiudizio che fare terapia voglia dire mettere in crisi il proprio mondo, rompere con alcune persone o magari accusare i familiari di errori irreparabili, da qui l'idea di dover effettuare un taglio netto con chi siamo stati e dover rinunciare alle persone e alle relazioni di sempre (soprattutto se sono o sono stati la fonte della sofferenza).

Per questo ho pensato alla metafora della matrioska per sfatare questa paura, comunque legittima.
La bambola di legno russa può diventare il simbolo per eccellenza dell'inclusione e dell'integrazione ma anche al contempo dello svelamento .

Quando qualcuno arriva in terapia è come la bambola più grande: si presenta con una identità dominante, con una storia recente da raccontare che motiva la venuta sul mio divano, poi man mano che le parole si dipanano è come se si aprisse la prima “corazza” e cominciasse a emergere anche altro, altri periodi di vita, altre storie, persone, emozioni, pensieri, tutte conservate dentro, in nuclei sempre più profondi fino ad arrivare alla matrioska più piccola, che come fosse una bambina, protetta da stratificazioni successive, narra la parte più vulnerabile e segreta di quell'esistenza.
Questa microscopica bambolina, non più riducibile, viene chiamata “seme” e mi piace pensarla come la parte unica e originale di quella persona, prima che qualsiasi evento avesse potuto influenzarla, portatrice di una energia primigenia, da recuperare per poter dare nuova linfa vitale alla vita.

Questa è la fase del togliere, dell'aprire, del guardar dentro, riscoprire, rivedere da altri punti di vista, mettere ordine e guardare dall'esterno in fila indiana quelle varie sfaccettature dell'esistenza in uno sguardo d'insieme che colga significati nascosti fino a poco prima.



Questa è anche la fase più critica, perché una volta fatto questo immane lavoro – dove si tocca con mano il dolore e la fatica con cui siamo arrivati a essere quello che siamo – si presenta il tema della perdita.
Per qualcuno può essere un sollievo e un'urgenza, per altri un incubo.
I primi vorrebbero far fuori aspetti dolorosi e inaccettati e magicamente cancellare parti della propria storia come se non fosse mai accaduta.
I secondi non vogliono rinunciare a parti dell'identità che rappresentano sicurezze – pur se fanno soffrire, perché sono conosciute – perché il futuro ignoto spaventa di più.
La soluzione, in entrambi i casi, non è buttare o eliminare, bensì includere.

Ognuno può e deve fare del materiale vivente della sua personalità, non importa se marmo, argilla o oro, un oggetto di bellezza, in cui possa manifestarsi adeguatamente il suo Sé transpersonale”
(Roberto Assagioli)

In questa frase del padre della Psicosintesi c'è tutto il processo descritto fino ad ora.
Possiamo associare il concetto di Sé transpersonale a quella bambola-seme portatrice dell'energia unica e irripetibile che va riscoperta ed espressa nel quotidiano.
È un lavoro di spoliazione ma successivamente anche di ricomposizione.
Ovvero ricollocare tutto il materiale psichico in un armonica visione che permetta il benessere.
Usando la metafora, si tratta di riunificare in una le diverse bambole di legno, con pazienza e amorevolezza, contenere tutta la stessa esperienza di prima, cogliendone ora non solo i limiti ma anche le opportunità e potenzialità.

Vi ricordate la sensazione di riprendere le varie bamboline, a partire dalla più piccola e rimetterle al loro posto, una dentro l'altra? A me dava un senso di pienezza, soddisfazione e compimento.
È quello che accade anche quando riusciamo ad accogliere e trasformare gli eventi della nostra vita in doni preziosi, potendo dar loro una collocazione, permettendo alla parte più adulta e matura di integrarli nel disegno più ampio di senso personale.



È finalmente il sentirsi completamente “a casa”.

buona settimana
virginia

1 commento:

Anonimo ha detto...

Salve,
ho ritrovato il suo articolo dopo aver sperimentato io stessa la sindrome della Matrioska.
Seppur vero e molto potente, resta comunque un lavoro difficile e credo ci voglia molto tempo per poter veramente "assorbire" le tante parti di sé stessi.