Quando qualcuno si accinge a iniziare un
percorso di terapia spesso viene assalito da un dubbio o timore:
quello di dover cambiare totalmente la persona che è stata fino a
poco prima (ne abbiamo già parlato anche qui).
Detto così può sembrare un paradosso.
Il motivo per cui le persone arrivano
dallo psicoterapeuta in generale ha a che fare con qualcosa che nella
loro vita necessita di essere trasformato o perché un sintomo sta
alterando la quotidianità di un tempo o perché una fase, una
relazione o esperienza è terminata e va rielaborata per poter
tornare a guardare avanti.
Premesso questo appare contraddittorio il
desiderio di restare tali e quali.
A volte qualcuno può arrivare ad
affermare “toglimi il sintomo ma tutto il resto va lasciato così
com'è”, ignorando che se quella sofferenza si è presentata è
proprio perché “il resto” - inteso come quell'equilibrio
che ha funzionato fino ad allora – non regge più “così
com'è” e quindi è necessario trovarne uno più armonico e
maturo.
Nascosta dietro questa idea di
conservazione dello status quo c'è la paura della perdita, di dover
abbandonare ciò che per molto tempo ha donato comunque certezze e
fatto percepire il senso di sé – possono essere aspetti
dell'identità ma anche legami interpersonali strutturati in un certo
modo.
Esiste un pregiudizio che fare terapia
voglia dire mettere in crisi il proprio mondo, rompere con alcune
persone o magari accusare i familiari di errori irreparabili, da qui
l'idea di dover effettuare un taglio netto con chi siamo stati e
dover rinunciare alle persone e alle relazioni di sempre (soprattutto
se sono o sono stati la fonte della sofferenza).
Per questo ho pensato alla metafora della
matrioska per sfatare questa paura, comunque legittima.
La bambola di legno russa può diventare
il simbolo per eccellenza dell'inclusione e dell'integrazione ma
anche al contempo dello svelamento .
Quando qualcuno arriva in terapia è come
la bambola più grande: si presenta con una identità dominante, con
una storia recente da raccontare che motiva la venuta sul mio divano,
poi man mano che le parole si dipanano è come se si aprisse la prima
“corazza” e cominciasse a emergere anche altro, altri periodi di
vita, altre storie, persone, emozioni, pensieri, tutte conservate
dentro, in nuclei sempre più profondi fino ad arrivare alla
matrioska più piccola, che come fosse una bambina, protetta da
stratificazioni successive, narra la parte più vulnerabile e segreta
di quell'esistenza.
Questa microscopica bambolina, non più
riducibile, viene chiamata “seme” e mi piace pensarla come la
parte unica e originale di quella persona, prima che qualsiasi evento
avesse potuto influenzarla, portatrice di una energia primigenia, da
recuperare per poter dare nuova linfa vitale alla vita.
Questa è la fase del togliere,
dell'aprire, del guardar dentro, riscoprire, rivedere da altri punti
di vista, mettere ordine e guardare dall'esterno in fila indiana
quelle varie sfaccettature dell'esistenza in uno sguardo d'insieme
che colga significati nascosti fino a poco prima.
Questa è anche la fase più critica,
perché una volta fatto questo immane lavoro – dove si tocca con
mano il dolore e la fatica con cui siamo arrivati a essere quello che
siamo – si presenta il tema della perdita.
Per qualcuno può essere un sollievo e
un'urgenza, per altri un incubo.
I primi vorrebbero far fuori aspetti
dolorosi e inaccettati e magicamente cancellare parti della propria
storia come se non fosse mai accaduta.
I secondi non vogliono rinunciare a parti
dell'identità che rappresentano sicurezze – pur se fanno soffrire,
perché sono conosciute – perché il futuro ignoto spaventa di più.
La soluzione, in entrambi i casi, non è
buttare o eliminare, bensì includere.
“Ognuno può e deve fare del
materiale vivente della sua personalità, non importa se marmo,
argilla o oro, un oggetto di bellezza, in cui possa manifestarsi
adeguatamente il suo Sé transpersonale”
(Roberto Assagioli)
In questa frase del padre della
Psicosintesi c'è tutto il processo descritto fino ad ora.
Possiamo associare il concetto di Sé
transpersonale a quella bambola-seme portatrice dell'energia unica e
irripetibile che va riscoperta ed espressa nel quotidiano.
È un lavoro di spoliazione ma
successivamente anche di ricomposizione.
Ovvero ricollocare tutto il materiale
psichico in un armonica visione che permetta il benessere.
Usando la metafora, si tratta di
riunificare in una le diverse bambole di legno, con pazienza e
amorevolezza, contenere tutta la stessa esperienza di prima,
cogliendone ora non solo i limiti ma anche le opportunità e
potenzialità.
Vi ricordate la sensazione di riprendere
le varie bamboline, a partire dalla più piccola e rimetterle al loro
posto, una dentro l'altra? A me dava un senso di pienezza,
soddisfazione e compimento.
È quello che accade anche quando
riusciamo ad accogliere e trasformare gli eventi della nostra vita in
doni preziosi, potendo dar loro una collocazione, permettendo alla
parte più adulta e matura di integrarli nel disegno più ampio di
senso personale.
È finalmente il sentirsi completamente
“a casa”.
buona settimana
virginia
1 commento:
Salve,
ho ritrovato il suo articolo dopo aver sperimentato io stessa la sindrome della Matrioska.
Seppur vero e molto potente, resta comunque un lavoro difficile e credo ci voglia molto tempo per poter veramente "assorbire" le tante parti di sé stessi.
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