martedì 27 settembre 2011

Sé-pararsi

Mi piace pensare etimologicamente alla parola sè-pararsi come difesa, protezione del nostro sé, dove per il sé s'intende la propria soggettività e il parare come costudire, difendere, proteggere.Dare corpo all'idea positiva di separazione considerando la separazione come un'azione di protezione nei confronti di noi stessi.In quest'ottica la separazione rappresenta l'occasione per riprendere il dominio su noi stessi, sulla nostra soggettività, senza confonderla con egoismo. Quindi anche quando la separazione è un evento subito possiamo considerare che c'è uno spazio da riempire, un'opportunità di crescita.

E' un'occasione che ci diamo per essere autonomi, dove “autonomia” significa poter prendere liberamente la decisione di scalare una montagna e decidere che l'unica cosa che potrebbe servirci è una piccozza e se qulacuno vuole accompagnarci può farlo in piena autonomia rimanendo tuttalpiù al nostro fianco per condividere la bellezza del paessaggio, la difficoltà della salita, i dubbi del percorso …

Il limite della separazione è quello del retaggio del neonato. Questo ricordo legato alla fisicità si insinua in noi ed è quasi un richiamo del corpo che ci spinge a rimanere legati.
Ogni legame anche il più piccolo, quando si interrompe, porta via una parte di noi stessi, un piccolo frammento di emozioni e di pensieri che viene sostituito dai ricordi. I processi psicologici che sono alla base di questo modello di relazione sono complessi e soggettivi.
E così la separazione rappresenta il sacrificio massimo per coloro che sono cresciuti nell'incertezza delle loro capacità, nella critica delle loro possibilità,nell'ansia dimostrativa di chi si sente di non riuscire ad appagare le aspettative altrui.
E quando i legami nascono dalla dipendenza, dal bisogno di essere capiti e accettati, la separazione si traduce come abbandono, svalutazione dell'altro e affidamento pedissequo alle regole e al senso di giustizia.
Dietro il dito dei diritti e dei doveri, nascosti dentro la toga del giudice e con la licenza di uccidere data al proprio avvocato, si nasconde una grande fragilità interiore. E' l'ennesima delega ad un altro della propria vita...
Le ragioni della separazione sono quindi cercate fuori e quindi le soluzioni sono delegate ad altri.
E allora la mia personale proposta è di prendere semplice atto della situazione e chiederci “Quale meravigliosa avventura mi aspetta da questo evento? “ “ Quale parte di me stesso sto imparando a conoscere ?”

Questo mio scritto è liberamente tratto da un libro che vi consiglio “Sè-pararsi” di Luigi Di Maio, che ha scritto una breve guida al distacco affettivo e lo voglio dedicare ad un uomo di cui non conosco nemmeno il nome, ma del quale amici mi hanno riferito, che ha deciso di togliersi la vita perchè lasciato dalla fidanzata....
Mi dispiace, amico-sconosciuto, che tu abbia deciso di interrompere il viaggio anche perchè ci sono tanti mondi da scoprire qui, ma ti vedo e rispetto la tua scelta...

Con amore
Evi

lunedì 19 settembre 2011

Come, meglio di così?

Virginia ha giustamente sottolineato come per accedere alla consapevolezza siano necessarie le giuste domande (se hai perso il suo post, lo trovi qui)

Ora, a me fare domande piace anche per lavoro (faccio l'avvocato e faccio mediazione) - e in più sono di mio curiosa come una scimmia -  ma vorrei condividere con Voi questo piccolo espediente che ho imparato relativamente al porsi delle domande utili per il nostro benessere .
Ora , il segreto è porsi queste domande quando stiamo bene, quando ci sentiamo in forma, quando gioiamo, quando siamo felici per ottenere un effetto moltiplicatore del benessere .
Le domande sono le seguenti : Come può essere meglio di così? Quale energia, quale spazio, quale consapevolezza mi permette di essere meglio , più grande, più ricca, più felice?
Il segreto è porsi queste domande quando si è già un pochino felici, si sta già benino, si pensa già di aver fatto un buon lavoro perchè così, con queste sensazioni positive, l'effetto si moltiplica.
Il limite del “ positive thinking” tanto sbandierato negli anni addietro è stato individuato proprio nello stato di malessare psicologico in cui era il soggetto che stava male e da questo stato cercava, si imponeva, voleva star meglio.
Ma se io “voglio” qualcosa significa che non ce l'ho, e quindi mancanza attira mancanza a livello emozionale e forse se sto guidando un'utilitaria e penso a quanto sfigato sono da questo stato emozionale pensare di volere una Ferrari o immaginare di giudare una Ferrari, non mi attira altro che frustazione...
Invece quando guido un'utilitaria posso pensare ai benfici che quest'auto mi offre ( facilità di parcheggio, costi ridotti di manutenzione) e da questo spazio di benessere pensare “ Come meglio di così ?” In tal guisa le mie meningi o se preferite i miei neuroni si attiverrano per cercare delle soluzioni e saranno in ciò aiutati anche dallo stato di benessere in cui già mi trovo...
E' utile quindi ringraziare (Dio, l'Universo, Shiva, Budda, o chi volete ) per quello che si ha e apprezzarlo e da questo stato di benessere, gratitudine, serenità chiedere a se stessi “ E come meglio di cosi?”
Trattasi di una semplice domanda, ma che apre infinite possibilità..
E voi allora giustamente a queste mie parole replicate “Bene , magnifico ma quando sto male, sto soffrendo, sono triste, mi va tutto male, cosa faccio?”
Beh, innanzi tutto non mi oppongo, non resisto, ma accetto e vedo quello che è . Ci sono cose che non possiamo cambiare ( vedasi il mio post precedente sulla resa) e da questo spazio di accettazione mi domando ad esempio se sono triste , se questo stato di tristezza mi appartiene o appartiene a mia madre o a qualcun altro:
Molti di noi infatti sono fedeli ad un modello comportamentale - acquisito per lo più in famiglia – e lo seguono per abitudine, per bisogno di riconoscimento , per necessità di appartenenza a quel gruppo.
Quindi se tutte le donne della mia famiglia sono tristi e hanno sposato mariti violenti, io inconsciamente non voglio essere felice perchè violerei un segreto accordo con loro in base al quale
io sono come loro e quindi mi sento accettata e riconosciuta dal gruppo solo se sono triste e mi sposo un uomo violento..Si tende a fare un accordo implicito con se stessi per essere fedeli al sistema famiglia e quindi quando sono triste mi chiedo innanzi tutto se questa tristezza mi appartiene oppure fa parte del mio bagaglio genetico. In questo ultimo caso decido di disfarmi di questo bagaglio perchè non mi appartiene, ma appartiene alla storia delle donne della mia famiglia.
Se invece questa tristezza mi appartiene , posso chiedermi “ Un essere infinto sceglierebbe veramente questo? Se avessi solo 10 minuti di vita deciderei veramente di passarli cosi? Quale energia, quale consapevolezza, quale spazio , quale insegnamento mi viene richiesto e non vedo al momento ?
Oppure semplicimente posso alzare gli occhi al cielo e cogliere l'infinità di questo universo per sorridere di me , del mio esssere infinitamente grande e infintamente piccolo allo stesso tempo e scoprire che tutto ma proprio tutto alla fine passa ed è solo un ...interessante punto di vista!
In inglese il concetto si rende meglio forse e si dice “ Allowance”
Come meglio di cosi?
Grazie , grazie , grazie!
E a proposito di ringraziamenti voglio ringraziare Alice Gabrielli e Access Conscioness e tutti coloro che in vari modi e ciascuno a modo suo, con varie tecniche, lavori e attività, con varie forme d'arte, di divertimento, di consapevolezza, di sport, di dura manualità o di sofistica intellettualità praticano il benessere, l'allegria, la gioia e li diffondono, scegliendo l'amore e non la paura. Perchè non importa cosa si fa, ma conta il come …

Con amore
Evi

martedì 13 settembre 2011

Diritto di mantenimento e nuova convivenza stabile


La disciplina dei rapporti economici tra ex coniugi è stata di recente interessata da un’importante pronuncia del Giudice di legittimità che sembra chiarire, piuttosto che innovare, il consolidato orientamento giurisprudenziale  in tema di relazione tra “mera convivenza” e “diritto all’assegno di mantenimento”.
Ma procediamo con ordine
DIRITTO DI MANTENIMENTO EX Coniuge
Che cosa è ?
L’assegno di mantenimento è un istituto previsto dal Codice civile all’articolo 156, secondo cui “il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a carico del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.
Per comprendere a pieno la ratio dell’istituto occorre innanzitutto rilevare che la separazione ha carattere temporaneo, ben potendo i coniugi decidere di riconciliarsi. È proprio questo carattere di “precarietà” che non fa venir meno quanto disposto dall’articolo 143 c.c. e che, quindi, permette di considerare ancora esistente un vincolo di solidarietà morale e materiale che lega i coniugi, anche se giudizialmente separati.
In secundis, il legislatore, nell’introdurre la disposizione di cui all’articolo 156, ha posto particolare attenzione a ciò che, fino a pochi decenni fa, avveniva nella prassi di molte famiglie italiane: frequentemente, di fatti, un coniuge, e segnatamente la moglie, era solito rinunciare alle sue aspirazioni lavorative e di crescita professionale per concentrarsi unicamente sull’educazione dei figli e sull’andamento “domestico”. In quest’ottica il legislatore ha, correttamente, ritenuto di salvaguardare il soggetto che avesse effettuato, d’accordo con il coniuge, una simile scelta e di permettergli, in caso di separazione, di non dover subire unicamente egli stesso gli effetti pregiudizievoli di tale decisione.
Venendo ai presupposti che devono concorrere affinché il giudice si determini a concedere l’assegno di mantenimento, essi sono tre (Cass. Civ. 12.12.2003 n. 19042; Cass. Civ. 18.09.2003 n. 13747; Cass. Civ. 08.08.2003 n. 11965; Cass. Civ. 19.03.2003 n. 4039):
  • la non addebitabilità della separazione al coniuge nel cui favore viene disposto il mantenimento;
  • la mancanza per il beneficiario di adeguati redditi propri;
  • la sussistenza di una disparità economica tra i due coniugi.
In materia di divorzio – secondo quanto previsto dall'articolo 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970 (nel testo attualmente vigente), occorra altresì il concorso dell'ulteriore requisito rappresentato dal fatto che colui che pretende il relativo emolumento non possa procurarsi detti redditi per ragioni oggettive
Occorre concentrarsi su cosa il legislatore abbia inteso parlando di “reddito”. Certamente il termine reddito è stato utilizzato nella sua accezione più ampia. Il riferimento va, innanzitutto, al denaro ma si intendono comprese anche altre utilità differenti dal denaro, purché economicamente valutabili (Cass. Civ. 03.10.2005 n. 19291; Cass. Civ. 06.05.1998 n. 4543; Cass. Civ. 30.01.1992, n. 961). A titolo esemplificativo, il giudice dovrà tener conto anche dei beni immobili posseduti, sia dal punto di vista del valore implicito che essi hanno, sia dal punto di vista del ricavato di una eventuale locazione o vendita degli stessi; dei crediti di cui il coniuge obbligato sia ancora titolare; dei risparmi investiti o produttivi; della disponibilità della casa coniugale etc…( sull’argomento vedi Cass. Civ. 29.11.1990 n. 11523; Cass. Civ. 20.02.1986 n. 1032, Cass. Civ. 14.08.1997 n. 7630; Cass. Civ. 04.04.1998 n. 3490).
Ora la Suprema Corte, infatti, applicando più o meno volontariamente ed in modo implicito il criterio della ragionevolezza, corollario del più generale principio di eguaglianza formale e sostanziale ex art. 3 Cost, ha deciso con la sentenza 11 agosto 2011, n. 17195 di distinguere all’interno dei cosiddetti rapporti di fatto quelli dotati dei crismi della stabilità e della costanza, vale a dire quelli caratterizzati dall’“arricchimento e potenziamento reciproco della persona dei conviventi” e dalla “trasmissione di valori educativi ai figli, ricollegando a queste ultime ipotesi conseguenze giuridiche diverse da quelle riconosciute alla più ampia categoria di appartenenza; lungi dal costituire un riconoscimento giuridico delle cosiddette famiglie di fatto, il decisum dell’organo giudiziale con funzioni nomofilattiche ha inteso attribuire un peso specifico notevole alle convivenze more uxorio sensibilmente radicate e realizzate successivamente alla cessazione del legittimo matrimonio, nel senso di ritenere queste tali da far venir meno la connessione tra il parametro dell’adeguatezza dei mezzi di sussistenza attuali del partner “debole” ed il tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale, “e con ciò ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile”[5].
La sentenza in esame ha espresso, dunque, il seguente principio di diritto: “In caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, l’instaurazione di una famiglia di fatto, quale rapporto stabile e duraturo di convivenza, attuato da uno degli ex coniugi, rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa convivenza matrimoniale e, in relazione ad essa, il presupposto per la riconoscibilità, a carico dell’altro coniuge, di un assegno divorzile, il diritto al quale entra così in uno stato di quiescenza, potendosene invero riproporre l’attualità per l’ipotesi di rottura della nuova convivenza tra i familiari di fatto”.
L’impressione che si ha è quella di una decisione sorretta dal buon senso e presa nel pieno rispetto della logica giuridica e sociale: in particolare, va osservato come la giurisprudenza di legittimità abbia finalmente dimostrato (nella materia in esame) di aver preso atto di quelle peculiari dinamiche che si innescano in un rapporto di coppia al momento della sua definitiva ed irreversibile conclusione e che conducono molti exconiugi a realizzare vere e proprie “nuove famiglie” formate al di fuori del riconoscimento legale e religioso.
La creazione di nuovi apparati coniugali e parentali produce, come noto, l’effetto materiale di moltiplicazione non solo delle responsabilità, ma anche dei doveri giuridici e non, ivi compresi gli obblighi di mantenimento ed assistenza nei confronti delpartner e dei figli (la cui sussistenza legale non è subordinata all’avvenuta celebrazione di un matrimonio o alla riconducibilità alla fattispecie astratta dell’art. 29 Cost.), così come pure comporta la moltiplicazione di situazioni giuridiche di vantaggio in capo a chi dell’adempimento di quegli obblighi risulta esserne il destinatario. Capita così che molte volte il coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento (ed il discorso non è limitato alle sole ipotesi post-divorzio) decida di intraprendere ed ottenga di realizzare un nuovo progetto di vita con un nuovo “compagno” o “compagna”, sì da avere ex novo una discendenza o addirittura una nuova prole che si affianca alla precedente, da dare un nuovo assetto economico-patrimoniale alla coppia di recente formazione (si pensi, ad esempio, ai piani di investimento comuni, alle co-intestazioni di conti correnti e libretti, alle fideiussioni dell’uno in favore dell’altro, alle stipulazioni congiunte di contratti di finanziamento, etc…), da consentirle acquisizioni condivise di importanti beni destinati alla realizzazione della nuova vita familiare (acquisto di abitazioni primarie o secondarie, anche a mezzo di interposta persona, oppure co-intestazione di beni immobili prima nella esclusiva proprietà di uno solo dei conviventi, etc…), da compiere atti inequivocabili da cui trarre la volontà dei conviventi di vivere insieme in modo stabile (trasferimento della residenza e del domicilio in un luogo comune, co-intestazione e pagamento delle utenze della propria abitazione, stipulazione congiunta di contratti di affitto di un medesimo appartamento, etc…).
La pronuncia de qua, forse in modo involontario, mostra pure di applicare il preminente ma scarsamente osservato principio di autoresponsabilità, in virtù del quale ogni soggetto dell’ordinamento risponde, tanto sul piano del diritto sostanziale, quanto su quello del diritto processuale, delle proprie scelte e delle proprie azioni, accettando le conseguenze che la Legge ricollega preventivamente a date condotte; nel caso di specie è corretto e conforme al detto principio che l’ex coniuge che scelga di creare ex novo, seppure senza forme sacramentali, un nucleo familiare con tutti i connotati tipici sul piano affettivo ed economico, accetti la rinuncia (temporanea, ma potenzialmente definitiva) al sostentamento da parte del precedente legittimo partner, ben potendo fare affidamento il primo su altre risorse spirituali e materiali derivanti dalla nuova famiglia di fatto. In altri termini, la scelta di impegnarsi in un nuovo progetto di vita familiare con elaborazioni di progetti futuri fa logicamente venir meno il bisogno di un contributo che garantisca l’adeguatezza dei mezzi di sostentamento in relazione alla precedente esperienza di coppia, azzerando il riferimento della pregressa situazione patrimoniale e finanziaria in ragione dell’azzeramento sostanziale della pregressa situazione familiare, così sostituita da quella attuale.
Concludendo, la pronuncia esaminata appare meritevole di un più che giustificato plauso, poiché non solo tiene conto delle reali dinamiche sociali che animano il complesso e disomogeneo mondo delle relazioni intraprese fuori dal “sacro” vincolo matrimoniale (cui appartiene la questione giudicata), ma lo fa al riparo da falsi moralismi e finte tutele, applicando quelli che sono i principi cardine dell’ordinamento giuridico, della mera logica e del buon senso.
E se introduciamo il concetto di autoresponsabilità cominciamo a introdurre anche quello di indipendenza della donna da tutti i legami vischiosi, sia economici che affettivi .
Con affetto
Evi

lunedì 12 settembre 2011

Parola alle mamme...


Nascono sempre di più in rete blog tenuti dalle mamme per le mamme, dove le parole condivise fanno sentire un po' meno le difficoltà di questa avventura chiamata figli. Perché diciamolo, la vita del genitore non è tutta rosea come appare nelle immagini stereotipate che ci circondano.... Io stessa collaboro con un blog che si chiama Mamma Imperfetta (lo trovi qui), dove Silvia coraggiosamente, qualche anno fa, ha cominciato a rivendicare la possibilità di riconoscere che anche le mamme sbagliano, che non sanno sempre e subito qual è la cosa giusta da fare, che vivono momenti di stanchezza e desideri di libertà, il tutto in un quotidiano costellato di felicità immense condensate in un sorriso senza un dentino, nell'abbraccio di un minuto che ti sembra un ora e nei primi traguardi di quel piccolo esserino che più lo guardi e più non ti sembra vero...
Insomma, la maternità riesce a dar vita a una grande risma di contraddizioni, domande e ricerca spasmodica di risposte, sul da farsi, sul che pensare, su come esprimere, su quello che è giusto e quello che non lo è... e capita a volte di farsi travolgere, di cedere a certe parti egoiche, insaziabili di perfezione e bisogni di conferme da non rendersi conto che forse, si sta perdendo di vista quella (chimera?) del giusto mezzo e dell'umiltà che dovrebbe guidare i nostri passi... beh, capita... la tentazione è grande, li vorremmo premiare per ogni successo, tutelare da ogni frustrazione, proteggere da tutti i mali del mondo... ma non è solo così che si impara a crescere. Non è solo risaltando i successi che si accresce l'autostima di un bambino, occorre fargli capire che ognuno di noi è unico e speciale, diverso anche nell'imperfezione, anche se non riesce a fare la stessa cosa che per un altro è così semplice, bisogna fargli conoscere che esistono anche le sconfitte, i rifiuti, le cadute, insegnandogli a rialzarsi e continuare ad andare avanti... passo dopo passo.
Tutto questo lo possiamo fare solo se già lo abbiamo accettato su noi stesse e per noi stesse e, si sa, non è così immediato...
Vi segnalo in proposito delle importanti e incisive parole scritte da Camila Raznovich su Io Donna, nella sua rubrica che ho scoperto solo qualche settimana fa e alla quale mi sono subito affezionata. Si intitola “M'ammazza” e già il nome mi ha fatto sorridere...lasciando poi spazio a intense riflessioni di una mamma, una donna, che come altre ha avuto il coraggio di riflettere a voce alta su temi quotidiani ma mai banali.
Questo è il link, a seguire l'articolo che ho scelto per voi e se preferite la carta, ogni sabato su Io Donna, in allegato al Corriere della Sera.
"Quanto è bravo il mio bambino
Non puoi capirla finché non la sperimenti sulla tua pelle. Mai immagineresti che la parola competizione possa avere qualcosa a che fare con la maternità e con il piccolo essere che sta crescendo sotto i tuoi occhi. Eppure… Eppure si insinua nella tua vita, senza che tu te ne accorga, quando ancora hai il pancione. Guardi le altre madri, fai paragoni: tu sei ingrassata e loro no, ma loro hanno le smagliature, tu no. E più tardi: tu hai latte, qualcuna no, però quella è tornata in forma subito, tu dopo un anno stai ancora cercando di smaltire i quattro chili che ti sono rimasti addosso. E la cosa peggiore è che questa gara a chi è la madre perfetta continua a oltranza e invade ogni aspetto della vita del bambino: «Mio figlio si è tolto il pannolino da solo a un anno e da allora mi chiede sempre il vasino: non ha bagnato le mutandine e il lettino neppure una volta» (???). Oppure: «Sì, mia figlia ha solo due anni, ma parla perfettamente e sa già scrivere il suo nome» (wow!). O ancora: «Davvero Viola non dorme al pomeriggio? Pensa che mio figlio di notte dorme dodici ore di fila da quando è nato e, dopo pranzo, un altro paio di ore… ovviamente senza ciuccio». Ma dove sbaglio io? Ci sono alcune madri che hanno la capacità di farti sentire una nullità, una perdente a vita. Davvero non capisco quale sia il problema nell’ammettere che il proprio bambino se la fa addosso, che non mangia secondo il galateo, e che no, non suona il piano di ritorno dall’asilo! Perché vogliamo a tutti costi avere dei figli geni, e comunque più geni degli altri già “abbastanza” geni??? Perché non riusciamo a trattarli come bambini, a lasciarli sbagliare, crescere, tentare, cadere, senza metterli in competizione tra loro (e noi con loro)? Alla fine è colpa nostra – proprio così, è sempre colpa delle mamme – e delle nostre insicurezze se i figli crescono con l’ideale della vittoria a ogni costo, invece che del rispetto per gli altri."

virginia

giovedì 8 settembre 2011

La capacità di introspezione


Abbiamo parlato in un post di qualche giorno fa della resilienza (se lo hai perso lo trovi qui).
Da oggi cominciamo a vedere insieme le diverse qualità che la compongono, partendo dalla capacità di introspezione.
Ogni volta che penso all'introspezione mi viene in mente l'immagine che ho scelto come apertura di questo post, ovvero la carta dei Tarocchi di Marsiglia de l'Eremita.
Vi troviamo un uomo solo, in cammino, sostenuto da un bastone e una lanterna a far luce sulla strada. Questa è l'essenza dell'introspezione: viaggio, solitudine, luce nelle tenebre.
Il viaggio è dentro noi stesse, perché arriva un momento in cui, dopo anni spesi a occuparsi del fuori, degli altri ma anche della nostra dimensione relazionale, del dover corrispondere ad aspettative altrui sulla nostra vita, o del non porsi domande ma semplicemente guardare sempre avanti...dicevo, esiste un attimo in cui ci si accorge che è l'ora di volgere lo sguardo altrove, spostare la prospettiva dal fuori al dentro, cercando risposte a domande che fino a quel momento erano forse rimaste congelate da qualche parte, tenendo con sé anche le energie che adesso ci mancano per progredire... Paradossalmente, per poter andare avanti, occorre volgere lo sguardo in maniera consapevole all'indietro: al passato, a quel che è stato o non è stato, quelle parti di noi perse per strada, abbandonate o mai scoperte, chi sa...
E' necessario fare luce, portare di nuovo attenzione a certe zone d'ombra.
Per questo la simbologia della carta rimanda anche a un momento di crisi, che mi piace interpretare come l'ideogramma cinese Wej.ji (crisi, appunto) creato dalla fusione dei due termini “pericolo/problema” e “opportunità”.
Ecco che allora introspezione lascia l'ambito che di solito gli attribuiamo, di pesca nel baule dei ricordi finché non se ne rasenta il fondo (con la paura di scoprirvi solo dolori e sofferenze) e diventa ricerca, scoperta, apertura a nuovi mondi, che non sono fuori ma dentro di noi, ancora inesplorati e portatori di nuove strade da percorrere. Il processo di conoscenza non è più limitato solo al passato, ma si prospetta teso verso il futuro, perché ogni parte di noi che emerge alla luce riesce a liberare le energie di cui è carica – magari fino ad oggi represse o usate in maniera errata – e ci dona nuove chiavi di lettura degli eventi per una interpretazione della vita più ricca e piena, perché vissuta con tutte noi stesse.
Crediamo sempre di dover trovare risposte...invece il segreto sta nel non smettere mai di porsi domande.
Dunque armatevi di un caldo mantello di obiettivi, un solido bastone di volontà, di un' illuminante lanterna del cuore e di comode scarpe, per un cammino di scoperte senza fine.
Alla “ricercatrice” che c'è in ognuna di voi, un abbraccio
virginia

lunedì 5 settembre 2011

...ancora qualche parola sull'abbandonarsi

Lovers in moon - Chagall


Il post di Evi di qualche giorno fa (se lo hai perso lo trovi qui), mi ha fatto venire in mente un brano di un libro che mi ero riproposta di utilizzare in qualche occasione...ed eccola qua!

Abbandonarsi: è una parola che dapprincipio sa di passività e rassegnazione. Chi non riesce a modellare attivamente e a prendere in mano la propria vita, si abbandona semplicemente al destino. Si arrende. [...] L'abbandonarsi ha a che vedere anzitutto con l'atto di "mettersi in qualcosa". Chi si abbandona alla vita, si mette nella vita e nel suo movimento. Non si tira indietro. Non si irrigidisce in se stesso, ma si abbandona al flusso della vita. Così, dentro di lui, qualcosa può fiorire e rianimarsi. Abbandonarsi è il contrario dell' irrigidirsi. Molti si aggrappano alla loro immagine, altri si aggrappano alle loro abitudini o alla loro proprietà, alla loro fama, al loro successo. [...]
L'angelo dell'abbandonarsi vuole introdurti anche nella fiducia che ti conduce ad abbandonarti a una persona. Oggi molte amicizie e molti matrimoni falliscono perché ciascuno resta fisso in se stesso, perché ciascuno ha paura di abbandonarsi. E' la paura di perdere la propria libertà, il timore che l'altro possa fare di uno quello che vuole, di essere consegnati al suo arbitrio e, alla fine, alla sua malvagità; senza questo abbandonarsi nessuna relazione può riuscire: ognuno non fa che mirare, pieno di timore, a controllare se stesso e le sue emozioni, le sue parole e le sue azioni ed evita di mettersi nelle mani di un altro, ma in questo caso non può crescere alcuna fiducia, l'altro non può in alcun modo mostrare che il rapporto con lui sarà buono, che non abuserà della mia fiducia. Abbandonarsi non vuol dire che rinuncio a me stesso. Riesco ad abbandonarmi solamente se sono in contatto con me, se so chi sono. Al tempo stesso c'è, però, un rischio in questo abbandonarsi. Lascio la sicurezza che il radicarmi in me stesso mi dà e mi abbandono nelle mani di un altro. Questo può riuscire solamente se so che l'altro non è un diavolo, ma un angelo che mi prende con le sue mani e mi sorregge, che ha buone intenzioni nei miei confronti. Conosco molte persone che ritengono di dover fare tutto da sole, di dover lavorare sodo per andare avanti e realizzare i propri ideali. Si sforzano di fare il bene, ma, prima o poi, arrivano in un punto in cui avvertono di non poter raggiungere tutto quello che vorrebbero. Possono avere tanti propositi, ma non li raggiungeranno tutti. Verranno continuamente messe di fronte alla loro inadeguata realtà. Allora è il momento di aprire le mani e di abbandonarsi all'angelo che Dio mi ha inviato affinché la mia vita riesca. Questo, però, non è un gesto di rassegnazione, ma di libertà”
Dal libro "50 angeli per accompagnarti durante l'anno:
breve trattato di spiritualità quotidiana"
di Anselm Grun, monaco benedettino dottore in teologia
Qualsiasi sia il vostro credo, queste parole del monaco Grun sono una disarmante verità. Come già ci ha ricordato Evi, esiste un momento in cui occorre lasciarsi andare e scoprire il piacere di cadere...e magari scoprire anche che ci sono braccia pronte ad accoglierci.
Vi ricordo che in inglese innamorarsi si dice “falling in love” mentre in francese “tomber amoureux”, in entrambi i casi alla lettera si tradurrebbe “cadere nell'amore”... non è stupendo? :-)
virginia