lunedì 24 settembre 2012

Liberarsi dalle false immagini di sé


Tutti nella vita abbiamo portato o portiamo delle maschere.

A volte lo facciamo consapevolmente, altre volte quei volti posticci sono indossati da così tanto tempo che nemmeno sappiamo di averli, finiscono per essere la faccia che mostriamo al mondo. Ovviamente non si tratta solo di lineamenti somatici, anzi, proprio per niente: guardandoci allo specchio vediamo sempre noi stesse, ma invece può essere che quella che agisce nel mondo sia una sfaccettatura dovuta, subita o mancata, ostentata, o ancora più subdolamente, negata, che si manifesta e ci condiziona nei comportamenti e nelle relazioni.

Il caro Assagioli, invitava a liberarsi di queste false immagini – con cui, volenti o nolenti ci siamo identificati – per poter realizzare a pieno ciascuno il proprio modello ideale.

A noi donne queste due parole accostate insieme evocano alla mente qualcosa di irraggiungibile e perfetto: attenzione, ho detto ideale non idealizzato!

Inoltre ho detto “ciascuno il proprio modello”, eliminando così il rischio dell'uniformarsi a un criterio uguale per tutti, che è quanto di più alienante ci possa essere.

Il tuo modello ideale non è altro che la realizzazione del tuo potenziale, lo sprigionarsi della bellezza della tua anima, che finalmente si può allineare con il talento per cui si trova su questa terra.

Talento non significa che devi essere brava a fare qualcosa: talento è ciò che arricchisce la tua esistenza, quello che ti dà gioia e benessere, anche se si tratta “solo” – si fa per dire – di dare espressione piena e appagata alla tua personalità, a tutto tondo, senza limiti o reticenze.

Quali sono dunque queste false immagini da sfatare?

  1. Quello che crediamo di essere. In questa categoria ci sono sia i nostri picchi di sovrastima che quelli – fin troppo conosciuti – di sottostima. Può sembrare banale ma il riconoscere che ci sono momenti in cui ci denigriamo gratuitamente può essere l'inizio di un processo di osservazione più obiettiva rispetto a noi stesse. D'altro lato però, è necessario anche disidentificarci dall'opposto, ovvero da tutte quelle immagini di noi che comunque non corrispondono al vero, ma ci fanno stare bene, perché ci preservano, anche se solo temporaneamente, dalla sofferenza.
  2. Quello che ci piacerebbe essere. Altro punto dolente! Questo è peggiore rispetto agli altri precedenti, perché è quello che può fatalmente portare a inseguire modelli irraggiungibili e quindi garantire una sofferenza perenne. Bisogna imparare a discernere fra obiettivi raggiungibili e obiettivi impossibili, dotate di coscienza e senso di realtà.
  3. Quello che vorremmo sembrare agli altri. Qui si tratta di vere e proprie maschere, indossate volontariamente per i più svariati motivi: essere accettate, per difendersi, per avere dei tornaconti, per non essere derise, per non essere abbandonate... A lungo termine però, queste immagini costruite imprigionano e impediscono di essere quello che siamo.
  4. Quello che gli altri credono che siamo. Vi è mai capitato di sentirvi descrivere da qualcuno e di non riconoscervi assolutamente in ciò che l'altro sta raccontando? Gli altri ci possono vedere sotto l'influenza delle loro esperienze, possono cogliere aspetti che a noi sfuggono come anche interpretare nostri comportamenti in modo diverso dalle finalità che ci eravamo poste. Riconoscere queste immagini frutto dell'interazione può farci scoprire aspetti nuovi o comprendere quello che sfugge alla nostra intenzione.
  5. Quello che gli altri vorrebbero che fossimo. Si tratta qui delle immagini più sofferte, perché figlie di frasi del tipo “avrei voluto che tu fossi come...” “perché non riesci a darmi questa soddisfazione?” fino ad arrivare a quelle del tipo “non sei buono a nulla” “mi hai deluso”.... ma nonostante questo, ti ritrovi a lottare perché tu proprio non ce la fai ad adeguarti alla volontà altrui (per fortuna!)
  6. Quello che gli altri evocano o producono in noi. In questo caso è la resa. Sono le immagini più subdole, quelle che ci hanno visto arrenderci ancora bambine, e ancora oggi ci vedono adeguate e aderenti a ciò che ci si aspetta da noi, senza discutere, facendo proprie le necessità altrui, senza fiatare, anzi, spesso inconsciamente, senza neppure rendersi conto di farlo.

Affrontare uno per uno di questi sei punti significa andare a fondo nella propria storia, chiedersi i perché di molti comportamenti, affrontare sofferenze che fino ad ora si erano evitate, fare un lavoro certosino di osservazione e spoliazione di false immagini modellate dal tempo come una seconda pelle...

Una volta depurata la nostra personalità dalle incrostazioni dovute alle proiezioni, alle idealizzazioni, alle adesioni a visioni altrui...ecco in tutta la sua luminescenza riapparire il tuo nucleo originario. La te autentica, da ammirare, coccolare e preservare. Meravigliosa forza della natura, in contatto con la tua energia primordiale.
 
buona settimana!
virginia

martedì 18 settembre 2012

I dolori della donne e le Madonne delle 7 spade


 
 
Domenica a Chioggia sono entrata per caso in una Chiesa e l’ho vista : una statua della Madonna il cui viso era intriso di dolore e il cuore cuore trafitto dalle sette spade. Ai suoi piedi Gesù, suo figlio morto. Ne avevo sentito tanto parlare, ma non l’avevo mai vista.

Secondo la cultura cattolica,infatti alla Madonna fu predetto da Simeone “ anche a Te una spada trafiggerà l’anima”. La Madonna infatti ebbe 7 volte il cuore trafitto durante la sua vita, in base alla narrazione dei Vangeli.

Quella statua, quel cuore trafitto, quei lineamenti induriti dalla sofferenza mi hanno fatto rivedere i volti delle donne che ho incontrato, che incontro.

Tutte Marie, tutte addolorate, tutte con il cuore trafitto

Lì c’era Maria licenziata dal lavoro perché si era rifiutata di “darla” al capo

Lì c’era Maria comprata in un paese sudamericano da un “ricco” industriale e poi costretta a prostituirsi in Italia

Lì c’era Maria accusata dal marito da cui si sta separando di avere fatto abuso sessuale sul figlio di sei anni, perché ha deciso di lasciare quell’ uomo violento, molto più vecchio di lei

Lì c’era Maria che mantiene con il suo lavoro tutta la famiglia, perché il marito ha il vizio del gioco.

Lì c’era Maria che ha scoperto dalla Polizia che suo figlio di quindici anni spaccia

Lì c’era Maria che ha perso in un incidente marito e figlia

Lì c’era Maria che non si separa anche se infelice, perché tanto gli uomini sono tutti uguali

Lì c’era Maria violentata a otto anni.

Io vorrei innanzi tutto ricordare a tutte queste Donne la nostra essenza , quella di Guerriere Creative di Amore.

Sì perché Maria è una donna forte , Maria è capace di liberarsi dalla spade inflitte e di lottare con le spade che si è tolta dal cuore. I suoi strumenti di lotta sono il sorriso, il cuore , la parola , l’amore, la gioia, la cura, la perseveranza, la caparbietà e quindi quelle sette spade inflitte nel cuore di Maria sono gli strumenti con cui noi donne dobbiamo lottare, le Spade del Cuore.

Sono strumenti vecchi, ma necessitano di nuova consapevolezza per essere usati

In un mondo maschile portiamo il nostro vero FEMMINILE e lottiamo con le Spade del Cuore.

Quel Cuore che rende possibile l’impresa impossibile , quel cuore che se ascoltato ci dà l’idea giusta , quel cuore che ci indica la via . Lo conosciamo bene noi quel cuore , ne apprezziamo la forza e l’essenza.

Purtroppo tuttavia noi donne per secoli abbiamo utilizzato quel cuore in maniera non consapevole : cercando di cambiare gli uomini con cui stavamo , cercando di nascondere a noi stesse i nostri bisogni e le nostre capacità, cercando di prendersi cura prima che di noi stesse degli altri.

No , Care Signore , non funziona così…Prima la Guerriera deve togliersi le proprie spade dal suo Cuore e poi le utilizza.

Alias.. prima dobbiamo curare le nostre ferite emozionali, diventare consapevoli , avere il Cuore Libero e non Trafitto e dopo quelle spade possono essere utilizzate.

E’ un invito : ad Essere , a conoscersi, a curarsi prima di usare il Cuore.

Perché un Cuore ferito e trafitto non sa dove andare, non ha direzione , non ha forza…

E allora voglio vedere una nuova Maria, una Maria che si toglie le spade dal cuore e quindi in quella Maria c’è..

Lì c’è Maria che denuncia

Lì c’è Maria che sceglie i compagni o i mariti

Lì c’è Maria che educa i figli con amore e fermezza

Lì c’è Maria che prende la sua vita in mano e non la delega

Lì c’è Maria che cura il sue ferite, i suoi traumi e poi riparte

Lì c’è Maria che conosce il suo corpo e la sua sessualità e li ama e si ama

Lì c’è Maria che danza , canta , gioisce e vive…

A tutte le Marie del mondo . Grazie!!!

Vorrei ringraziare tuttavia tre donne : mia madre che mi ha insegnato ad essere economicamente autonoma e a seguire il mio cuore, mia Zia Euclide detta “Donna Rosa” da cui ho imparato la femminilità gioiosa,giocosa ed intelligente ed Anna che con le sue domande lascia a me o meglio al mio cuore le risposte …

Con amore

Evi

domenica 9 settembre 2012

Perché le donne sanno essere così autodistruttive?


 
 
In questo periodo in cui mi identifico molto col coniglio di Alice, di corsa, alla ricerca spasmodica di minuti persi per strada, mi è stata posta una domanda, che mi ha costretta a fermarmi. E riflettere.

perché noi donne abbiamo la forte tendenza ad essere autodistruttive??”

Non è facile trovare parole chiare e definite per dare un senso a quell'interrogativo: come ho già detto altre volte, nemmeno noi psicologi, “esperti” dell'animo umano, abbiamo risposte giuste e definitive.

Come dico sempre, possiamo evocare ulteriori domande, possiamo accompagnare nella ricerca di senso, possiamo aiutare a scorgere le stesse vicende da punti di vista alternativi... ma non abbiamo la lama della retta condotta, che taglia il quesito una volta per tutte e assegna valore insindacabile alle situazioni.

Quindi proverò a rispondere con quello che so, ovvero quello che ho raccolto delle storie di vita di chi me le ha affidate, per rileggerle, rivederle, trasformarle... riporterò le domande che queste donne si sono poste, lungo il cammino che le le ha viste rinascere.

Cominciamo dalla tipica frase: lo so che è sbagliato ma non riesco a farne a meno. Oppure la variante gemella: la mia parte razionale sa che non è giusto ma poi prevale il sentimento (o l'impulso) e non riesco a uscirne.

Scisse in due metà, come il visconte dimezzato di Calvino o le sorelle Dashwood della Austen, con entrambe le parti scollegate, che prese ognuna di per sé risultano odiose e fuori luogo.

Ragione pone leggi su ciò che si fa o che non si fa, irrigidisce comportamenti e regola intenzioni finché crea argini di pietre per ripararsi da inondazioni di mieloso sentimento, nostalgica attenzione a ciò che è perso (di solito perdendo di vista ciò che è guadagnato).

Sentimento deborda dai confini, non si occupa delle conseguenze, guarda a ieri o al massimo a quello di cui ha bisogno oggi e si limita a sognare il domani, costruito sulle sabbie mobili dei “se” e dei “ma”.

Impulso invece agisce e basta. Risponde a un desiderio di appagamento immediato, vuol godere dell'attimo senza porsi domande.

A seconda che prevalga l'una o l'altra posizione, oscilli fra momenti di esaltazione e di profondo sconforto, persa fra il bisogno di controllo e quello di lasciarsi andare.

Quando si è nella subpersonalità autodistruttiva si fa di tutto per non incorrere nell'unica parte che potrebbe essere di aiuto: l'Obiettività.

Obiettività osserva e annota, non giudica né biasima, semplicemente prende atto di tutto quel che c'è ma soprattutto di ciò che manca.

Sue frasi nemiche sono “dagli ancora un'altra opportunità” “forse sei stata troppo dura” “cosa credi di meritare di più” “senza non ce la fai” “dai questa è l'ultima volta” “era meglio il mio ex, almeno lui in questo....” e altre catene di parole che limitano il raggio d'azione agli angusti confini conosciuti.

Obiettività necessita di una compagna che è volontà, la quale deve procedere con perseveranza e pazienza.

È molto difficile separarsi da una persona, da un'abitudine o una situazione in cui hai creduto, in cui hai investito energie, tempo, parte della tua vita.

Separarsi è un po' morire. È accettare che qualcosa è finito o che si è sbagliato, che abbiamo preso lucciole per lanterne, che si è fallito. Significa soffrire. Ancora una volta, anche se ti eri ripromessa che non sarebbe più accaduto.

Se sei obiettiva sei costretta ad affrontare i tuoi errori e scoprire che cosa non ha funzionato. Non solo nell'altro, ma anche in te. Cosa è stato che ti ha fatto accettare situazioni, piccole o grandi, inaccettabili. Quali motivazioni e bisogni sono alla base di quella parte autodistruttiva che si ostina a non voler andare avanti. Perché continui a “cercare” – a volte inconsciamente – situazioni o persone in qualche modo simili.

Perché non ti affranchi dalla ricerca ostinata di far cambiare idea all'altro, di convincerlo che sei nel giusto, che ha sbagliato, che ti ha ferito e in qualche modo deve dartene una ragione o addirittura riparare, di riconoscere che ti ha fatto del male o di spiegarti perché ti ha fatto bene per molte cose ma ti ha ferito nell'unica che per te era importante? Da chi e da cosa ti impedisci di emanciparti? Perché ogni piccolo passo incerto e traballante ti fa inesorabilmente ritornare a pensare che era meglio stare coi piedi nel cemento? Perché la sofferenza ti è così familiare? Perché dici di desiderare il meglio e poi in realtà credi di non meritarlo? 

In realtà non è (solo) l'altro il problema.

In realtà forse è necessario modificare parte di te.

Andare a fondo della tua storia, sciogliere nodi e riordinare i fili delle relazioni originarie.

Creare un fuso di prezioso filo, per tessere nuove trame della vita che meriti, senza rattoppare i buchi di tele lise e irrecuperabili. Osare confezionarti un vestito su misura, non limitarti ad indossare la ridicola rete invisibile dell'imperatore, che per compiacere gli altri andava in giro nudo.

Ripartire da te.

Fondare ancora una volta chi sei e che cosa vuoi.

Perché ogni esperienza è maestra di vita, ma occorre avere il coraggio di lasciarla alle spalle. Definitivamente.

(spero di aver dato spunti per trovare risposte. Ciascuna la propria.)
 
Concludo con una frase tratta dal libro “Donne che amano troppo” di Robin Norwood:

Invece di una donna che ama qualcun altro tanto da soffrirne,
voglio essere una donna che ama abbastanza se stessa
da non voler più soffrire.

virginia