Il cambiamento è ciò che maggiormente
cerchiamo e allo stesso tempo temiamo nelle nostre vite.
Molte delle richieste di colloquio nella
stanza di terapia avvengono da parte di persone che si trovano in
questa vischiosa terra di mezzo: guardando indietro ci sono molte
cose che non rendono più felici, non sono più soddisfacenti e
appaganti per la persona che siamo oggi, ma guardando avanti c'è
solo l'incognita di qualcosa di sconosciuto, densa di molti
interrogativi sulla persona che vogliamo diventare.
Nel mio lavoro osservo che quando questo
processo è in atto, in realtà è qualcosa di irreversibile:
qualcuno ci prova a non vedere, non sentire, non agire, ma la spinta
diventa in questo modo sempre più intensa e rischia di diventare un
sintomo-sofferenza che chiede di essere ascoltato, spesso a qualsiasi
costo.
Dove nasce la difficoltà di cambiare?
Penso che nasca dalla convinzione/bisogno
infantile di credersi coerenti e sicuri nell'identificarsi con
aspetti di sé conosciuti e irrevocabili.
Vi spiego meglio.
Quando siamo piccoli cominciamo a
conoscere il mondo e noi stessi alla ricerca di punti fermi che ce lo
rendano meno pericoloso e incerto.
Apprendiamo che se siamo in un certo modo
o ci comportiamo in una data maniera, accadrà qualcosa di
prevedibile e diciamo “controllabile” a priori.
Quindi cominciamo a mettere in atto
strategie di adattamento che nel tempo diventano copioni di vita.
In parole semplici, ripetiamo quello che
ha funzionato.
Facciamo un esempio.
Di fronte a una certa persona so che se
voglio evitare lo scontro devo agire in quel modo che conosco perché
l' ho testato nel tempo.
Magari il mio bisogno di evitare il
litigio è nato quando ero piccolo e non avrei avuto la possibilità
di spuntarla rispetto a un genitore che imponeva il suo volere (sia
in maniera diretta con i veti, ma anche in maniera indiretta,
dimostrandosi a sua volta bisognoso o sofferente).
Da lì, in maniera automatica, ogni volta
che mi trovo con una persona simile nei comportamenti e atteggiamenti
al genitore tenderò a riproporre lo stesso schema, anche se oggi
potrei fare altrimenti.
Il bisogno prevalente di evitare il
conflitto fa parte di quelli infantili, perché legati al timore di
perdere l'amore o essere rifiutati da coloro dai quali dipendiamo.
Ma allo stesso tempo, tenendo conto solo
di quello, rinunciamo ad altri tipi di bisogni che c'erano già
nell'infanzia e che nel tempo si strutturano e maturano con noi, come
il bisogno di affermare se stessi, essere rispettati per le nostre
posizioni, essere riconosciuti nelle nostre necessità di
autorealizzazione.
Semplificando, finiamo per comportarci
con il partner, il capo o un amico, come ci comportavamo a cinque
anni con il genitore in questione.
La convinzione sottostante e inconscia
che fa agire così potrebbe essere una cosa del tipo “non posso
litigare con te perché...” “mi schiaccerai/ mi rifiuterai/ ti
distruggerò/ finirà tutto/ non l'avrò mai vinta...” ecc... a
seconda dell'esperienza dell'infanzia percepita.
Finché il copione e le relative
convinzioni restano inconsci, nessun cambiamento sarà possibile.
Nella terra di mezzo dell'insoddisfazione
riusciremo a sentire che qualcosa dentro si ribella ma non saremo in
grado di dargli spazio come dovremmo.
Perché questo spazio è la parte adulta
che deve autorizzarselo.
Occorre modificare il punto di vista, da
quello immaturo a quello maturo.
La parte adulta si può concedere un
comportamento differente perché sfatando i miti dell'infanzia, si
accorge che non accadrà nulla di così catastrofico.
Ma soprattutto può fare esperienza
diretta che si può sopravvivere – anzi, vivere meglio – anche
senza quelle rigide convinzioni che attanagliano, scoprendo che nella
mancanza di certezze, la vita acquista finalmente fluidità e
creatività.
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