lunedì 25 marzo 2013

La dipendenza emotiva e quando la legge non serve


 
Mi domandavo un tempo perchè la legge non serviva a quelle donne che difendevo..o meglio io lottavo, magari vincevo, ma dopo un po' la situazione si ripresentava uguale, magari con un partner diverso...
E quindi la legge non serviva..
Così ho approfondito e studiato (cosa che mi riesce anche bene ) e scoperto che ...
La dipendenza emotiva nasce da una ferita che cerca di rimarginarsi, ma se non ci evolviamo nella comprensione di questo aspetto, la ferita stessa tenderà a ricrearsi e a fossilizzarci nello stato di bisogno. La dipendenza emotiva nasce fondamentalmente da quello che non permettiamo né riconosciamo a noi stessi. E’ un continuo tornare al punto di partenza: se abbiamo questa voragine interiore, grande o piccola che sia, niente e nessuno potrà mai colmarla… quello che non abbiamo ricevuto, ledendo il nostro diritto di ricevere, sarà sempre qualcosa di mancante, a meno che riconosciamo e ci occupiamo del nostro bisogno, cominciando con il prendercene cura in prima persona.
Alla base delle dipendenze emotive c'è un conflitto personale irrisolto, una ferita profonda che ha creato un vuoto/bisogno e agisce dall’inconscio, quindi al di là della nostra consapevolezza ordinaria. Una ferita che ci spinge verso situazioni, comportamenti e incontri per imparare a guarire.Chi di noi non ha vissuto in prima persona o in modo indiretto quelle situazioni in cui “ci perdiamo” dietro a qualcuno, nell’anelito assoluto di ricevere amore e riconoscimento, e costui, in mille modi a volte anche molto “eleganti” e velati (o con il doppio messaggio dei suoi atteggiamenti, in cui sembra fare una cosa ma in realtà non la fa affatto), ci demolisce continuamente… ma noi continuiamo a stare lì, senza sosta, anzi, insistiamo, anche se in realtà rantoliamo nella sofferenza.
Di solito trattasi di una persona che nei suoi primi anni di vita, per varie situazioni non ha potuto avere un nutrimento adeguato, a livello anche di concreta attenzione ai bisogni corporei, non solo emotivi, ad esempio non ha potuto avere un proprio spazio dove sentire il diritto di esistere, di poter chiedere, di avere fame e quindi di poter essere nutrita, di piangere, essere toccata ecc… allora, molto probabilmente, da adulta svilupperà la tendenza ad avere dipendenze emotive da quegli individui che riflettono proprio la stessa dinamica.
Il punto fondamentale è comprendere il proprio bisogno. Solo la consapevolezza del bisogno che ne è alla base, può far uscire dalla dipendenza emotiva.
Ma come se ne esce?
AMARSI. Se accogliamo il nostro dolore, il nostro bisogno, scopriamo incredibilmente che abbiamo la capacità e la possibilità di affrontarlo . E più si entra in questa possibilità più ci si allontana dalla dipendenza, perché di conseguenza non si vive più nel bisogno dell’altro la cui presenza, a quel punto, si trasforma nell’occasione per vivere davvero un desiderio.
La stessa energia impiegata nell’agire la dinamica del vittimismo può essere impiegata per accogliere e sviluppare la consapevolezza di sé.
Quindi, invece di minare il nostro potere attraverso il senso di colpa e pensare di essere sbagliati, possiamo affermare: “mi posso occupare di questa cosa”, “posso guarirla”, “posso accoglierla”…POSSO AMARMI!!
Quando ci sentiamo affondare in una specie di abisso, quando ci sentiamo sopraffatti, quando vorremmo ribellarci, dire “ma succede sempre a me”… ci si può fermare per un po’, se c’è una discussione magari interromperla e ricavare uno spazio tutto per noi, prendere una pausa dal contesto, e quindi provare a sentire la risposta alla domanda “Cosa sto facendo veramente? Perché mi sento davvero così? Cosa mi manca?” – Quanti anni ho? Mi sento .
Sentire niente in realtà vuol dire sentire qualcosa: vuol dire che sto sentendo che c’è una difficoltà nel pemettermi di recepire e di sentire qualcosa di più definito.
Con amore
evi

lunedì 18 marzo 2013

Il Papa, la Boldrini, la Madonna e le donne


Prendo come spunto alcuni fatti di cronaca.

Habemus papam e con lui, sembra, anche un nuovo modo di rappresentare la Chiesa, lui che nel primo discorso da quel balcone, informa che il giorno successivo si recherà a S. Maria Maggiore per rivolgere una preghiera alla Madonna perché ci protegga.

Habemus i presidenti di Camera e Senato, con la Boldrini che nel discorso di apertura dopo la sua elezione, fra i diversi obiettivi inserisce questi: 

Dovremo farci carico dell’umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore. […]

La politica deve tornare ad essere una speranza, un servizio, una passione.

Cercherò di portare assieme a ciascuno di voi, con cura e umiltà, la richiesta di cambiamento che alla politica oggi rivolgono tutti gli italiani, soprattutto i nostri figli.

Il padre della Chiesa che fa appello alla Madre di Gesù, perché forse, in questo spirito di rinnovamento serve proprio la misericordia femminile, che lenisca gli errori di quegli uomini, anche dentro le istituzioni religiose, che hanno portato violenza e orrore verso i più deboli. 
Una madre, la Boldrini, che si trova in un ruolo fondamentale nello Stato e porta con sé valori tipicamente femminili: prendersi cura, donare speranza, prestare servizio.
Allo stesso tempo però evoca anche la passione, la lotta alle ingiustizie per poter non solo sognare, ma anche attuare il cambiamento per i propri figli.

Tutto questo mi ha fatto pensare a un saggio di Michela Murgia – Ave Mary – (Einaudi, 2011) dove l'autrice esprime mirabilmente diverse interpretazioni della figura di Maria, intesa come donna “creata dalla Chiesa”, ma anche come donna anticonformista, che porta avanti un disegno più grande, modello tutt'altro che remissivo di una consapevolezza di sé e dei diversi modi di esprimersi in un mondo maschile. 
 
Innanzitutto mi è piaciuta l'interpretazione di Maria come “la sovversiva”, ovvero colei che ha detto sì all'annunciazione dell'angelo, ma non per questo è semplicemente da etichettare come docile e sottomessa:

Questo misterioso visitatore non rispetta le regole, rendendola soggetto protagonista della scelta che più la riguarda, come è giusto oggi, ma come non era certamente normale nel I secolo. […] Una fanciulla per bene davanti alla proposta sconcertante di restare incinta senza conoscere uomo avrebbe dovuto nel migliore dei casi rifiutare, nel peggiore chiedere tempo. Dire qualcosa di molto assennato e prudente, tipo “ne parlo con mio padre” oppure con qualcuno più grande, più esperto, più potente. Maria si guarda bene dal fare tutto questo […] Il sì di Maria sarà suonato molto bene nell'alto dei cieli, ma a tutti gli effetti nella terra degli uomini restava un suicidio. (pag. 116-117)

Con una simile madre non c'è da stupirsi se Cristo per tutta la sua vita pubblica ha usato alle donne un'attenzione altrettanto anticonformista rispetto al contesto in cui è vissuto. Non c'è niente come la Scrittura per rivelarci quanto sia falsa l'idea di Maria che vogliono darci a bere come docile e mansueta, stampino perfetto di tutte le donnine per bene (pag.118)

Con lucida determinazione, la Murgia descrive le conseguenze dell'aver accettato solo una interpretazione del comportamento di Maria, visto che

Nella catechesi tradizionale (…) è rappresentata come la donna del sì. […] Le donne credenti di ogni latitudine hanno dovuto ascoltare secoli di prediche sulla Maria obbediente e accogliente, la Maria docile alla volontà di Dio, la Maria silenziosa che non discute anche quando non capisce, ma si piega con la flessibilità di un giunco al soffio inatteso dell'imperscrutabile Spirito. […] Attraverso la costruzione fittizia di una specie di via del sì alla santità, la struttura patriarcale trovava nella religione cattolica una formidabile alleata per continuare a esigere la muta sudditanza femminile. […] A date condizioni, la donna deve dire di sì, perché il suo rifiuto non sarebbe comunque accettato. Al mutare delle condizioni, la donna deve dire di no, perché il suo consenso semplicemente non è previsto.

[…] Della fanciulla che preferì tornare a casa senza la verginità piuttosto che morta non sapremo mai neanche il nome, perché il suo sì le avrà anche salvato la vita, ma non risulta funzionale al sistema che la voleva fino in fondo vittima e indifesa. La figlia ribelle che prova a opporre le proprie condizioni a quelle del padre non sarà portata ad esempio a nessuna: il suo no sovverte la gerarchia familiare. La moglie cristiana che ha provato a sottrarsi ai rapporti sessuali con l'energumeno che si era resa conto troppo tardi di aver sposato, difficilmente avrà sentito incoraggiamenti dalla grata del confessionale: il suo no destabilizza il rapporto di potere in cui è entrata sposandosi. La ragazza credente che si rifiuta di vergognarsi di far l'amore col suo ragazzo prima del matrimonio dovrà imparare a convivere con la disapprovazione del suo contesto religioso, perché il suo sì afferma che il controllo del corpo è in mano sua. La donna separata che provasse a rifarsi una vita con un uomo diverso da quello che l'ha portata all'altare, sa bene che per la Chiesa ha già detto un sì di troppo. (pag. 114-115)

Sul retro di copertina la Murgia scrive:

dovevo fare i conti con Maria, anche se questo non è un libro sulla Madonna. È un libro su di me, su mia madre, sulle mie amiche e sulle loro figlie, sulla mia panettiera, la mia maestra, la mia postina. Su tutte le donne che conosco e riconosco. Dentro ci sono le storie di cui siamo figlie e di cui sono figli anche i nostri uomini: quelli che ci vorrebbero belle e silenti, ma soprattutto gli altri. Questo libro è anche per loro, e l'ho scritto con la consapevolezza che da questa storia falsa non esce nessuno se non ci decidiamo a uscirne insieme.

Adesso, con l'intercessione del Papa, l'impegno della Boldrini e l'energia di moltissimi uomini e donne nel nostro paese che credono nella possibilità di rapporti sani e maturi, speriamo sia arrivata una svolta.
Che l'umiliazione possa trasformarsi in punto di forza, per dire no alla violenza e all'ingiustizia e dire sì alla vita e al rispetto, in tutte le sue forme.  

Buona settimana
virginia

lunedì 11 marzo 2013

Le sindromi distruttive della coppia




Ho trovato questa interessante categorizzazione in un libro di Roberta Giommi, “Le donne amano la terra e il cielo” (ed. Frassinelli, 2005), dove, in circa duecento pagine si dipanano in modo semplice e accessibile, i temi quotidiani e le spiegazioni dell'arte di vivere al femminile.

Le dinamiche che avvengono all'interno di una coppia sono numerose e complicate, frutto della storia personale, delle esperienze significative, delle proiezioni di caratteristiche necessarie alla propria identità o rifiutate (ne abbiamo parlato qui).

Ritengo però che queste tre sindromi, ben descritte dalla Giommi, siano quelle che, trasversalmente ai casi individuali, possono trovarsi spesso in molte dinamiche fra coniugi o fidanzati, col risultato di rovinare le cose, anche a priori.
La sindrome pedagogica: io ti cambierò, modificherò le tue abitudini e il tuo carattere.

L'altro non viene amato per quello che è, ma per la presunzione di volerlo cambiare. Infondo le sue caratteristiche non ci piacciono e pensiamo di trasformare i suoi difetti in virtù. È una sindrome prevalentemente femminile perché si adatta a un compito genitoriale. È pericolosa proprio perché contraria al fondamento più importante del benessere di coppia, rappresentato dal reciproco riconoscimento: “penso che tu sia una persona di valore e penso di essere anch'io una persona di valore” (Giommi, pag. 153)


All'inizio di questo meccanismo perverso, si viene attratte da almeno qualche caratteristica dell'altro che appare positiva o attraente, ma, al momento in cui ci si accorge che ci sono altre cose che non vanno (nel senso che non corrispondono alle nostre aspettative), ecco che scatta questa sindrome, dove l'obiettivo non è più quello di stare insieme nella libertà di essere se stessi, ma diventa una ricerca maniacale di modificare nell'altro atteggiamenti, comportamenti, insomma, ci si aspetta che rinneghi parte di quello che è stato fino ad allora.
La spiegazione sta in quella frase che la Giommi si limita a esplicitare, ma che necessita di altre parole per essere compresa: È una sindrome prevalentemente femminile perché si adatta a un compito genitoriale.
Questo significa che la donna (ma anche l'uomo se lo fa) si pone in una posizione genitoriale col partner (condensata in una frase del tipo “io sono l'adulto e so cosa è meglio per te”), che presuppone di sapere che cosa è bene per l'altro (che poi, siamo proprio sicuri che il solo fatto di essere genitore, ci dia la possibilità di sapere esattamente che cosa è bene o meno per il figlio? Di decidere cosa deve farne della sua vita e come deve essere? Ma questa è un'altra storia...)
Nella coppia i partner dovrebbero procedere in parallelo, senza che uno prevarichi l'altro arrogandosi ruoli genitoriali: ovvero, possono esserci situazioni in cui si fa leva sulla propria subpersonalità genitoriale per poter essere di conforto e aiuto, nel prendersi cura, ma non può essere uno standard di comportamento.
Ci sono coppie ove uno dei due è considerato alla stregua di un figlio – spesso sono le donne che trattano il marito al pari dei marmocchi di casa – impedendogli di fare delle cose perché loro le fanno meglio, per poi lamentarsi che devono fare tutto da sole e che il compagno è un bambino viziato non cresciuto...(lui dal canto suo conferma questa realtà, adagiandosi in una posizione subordinata e più comoda, se non fosse per il dover sopportare le recriminazioni e lamentele, in un circolo vizioso senza fine...)
Non è lamentandosi che si ottiene il cambiamento: in questi casi è necessario rivedere i ruoli, riconoscere lo scarto di potere e restituire responsabilità a entrambi, facendo fronte alle mancanze e ai bisogni che hanno portato all'instaurarsi di quella situazione. 
Quando uno dei due sente di sapere cosa è meglio per l'altro, occorrerebbe interrogarsi su quali vantaggi personali e quali interpersonali, può portare il fatto che i propri desideri vengano esauditi: nel secondo caso può essere che siano di beneficio alla coppia, nel primo possono invece nascondere bisogni infantili o la sindrome di cui abbiamo parlato sopra.


La sindrome salvifica: io ti salverò, curerò le tue ferite e le tue insoddisfazioni e ti renderò felice.

Indica di nuovo una sopravvalutazione delle nostre forze e una istanza di riparazione che spesso si trasforma in rancore perché l'altro resta infelice, rabbioso, scontento. Tale comportamento prevede spesso la ricerca del male nel partner come parte scissa di noi. (pag.154)


Qui si nascondono tante sfaccettature delle disfunzioni relazionali che maggiormente colpiscono le donne (la sindrome della crocerossina, la sindrome di Wendy di cui abbiamo parlato qui, la sindrome dell'indispensabile... ).
Ancora una frase da spiegare: Tale comportamento prevede spesso la ricerca del male nel partner, come parte scissa di noi.
Semplificando si potrebbe dire che la ricerca spasmodica di occuparsi di questi personaggi difficili e dannati, nasconde la ripetizione di copioni disfunzionali della propria vita: può essere che ci stiamo occupando della nostra parte infelice e rancorosa che non riconosciamo dentro e proiettiamo sull'altro, oppure che, attraverso quell'uomo, inconsciamente ci riconnettiamo con un altro uomo significativo (magari il padre) verso il quale sentiamo – per motivi diversi e complessi – di non essere riuscite a renderlo felice. Ovviamente tutti questi processi sono inconsci, per cui la prima reazione alle mie parole sarà “no. Impossibile. Non è il mio caso...” ma magari, già il cominciare a chiederselo potrebbe aprire a nuove prospettive... (vi ho già parlato del libro Donne forti, deboli con gli uomini forti, qui)

La sindrome dell'indovino: chi ama sa che cosa deve fare perché guidato dal cuore.

Le donne di oggi, che pure possono esprimere i loro desideri e sono in grado di esplicitarli, sognano ancora che il maschio, come il genio della lampada, li capisca e realizzi, senza bisogno di chiedergli nulla. La dimensione relazionale si costruisce invece accettando di leggere e di ascoltare i segnali dell'altro. Ricevere risposta perché si è chiesto per ottenere non toglie niente alla bellezza del dono ricevuto. Non è vero che se non indoviniamo i pensieri del partner non siamo innamorati. (pag. 154)
Questa è la sindrome che mi muove più tenerezza quando la trovo, ovvero l'idea romantica che il partner, siccome mosso dall'amore, abbia il potere di indovinare tutto quello che serve per farci stare bene. La replica che sento dire spesso è: “ma all'inizio succedeva, era più attento, presente...” Io rispondo che all'inizio anche voi eravate disposte diversamente a farvi conoscere e manifestare ciò che vi piaceva o meno, perché nella fase di conoscenza è normale... inoltre non si può pretendere di restare sempre uguali a se stessi. Passa il tempo e magari anche cambiano i bisogni e le modalità di realizzarli ed è bello manifestarsi all'altro in questi nuovi aspetti, condividere, raccontare, invece di aspettare come un segugio i segnali che lascino cogliere che si è accorto che improvvisamente ci piace il colore verde invece che il giallo, che ci piacerebbe andare al cinema a vedere un film che esce oggi con la nostra attrice preferita (ma magari lui non lo sa), che vorremmo ci regalasse un fiore invece di un cactus (ma come, fino a ieri adoravi i cactus!)... e subito dopo poi linciarlo se non riesce a leggere fra le righe o dentro la nostra contorta e al tempo stesso assiomatica testa!


Ricordiamoci che spesso, l'autoironia è ciò che restituisce spontaneità e fluidità ai rapporti interpersonali (e anche con se stessi...)


Vi auguro una splendida settimana

virginia

lunedì 4 marzo 2013

Recuperare l'Ombra


 


Nel mio studio ho una lavagnetta, come quelle della scuola, dove si scrive col gesso: per metà è nera e per metà ha uno spazio dove si può inserire una foto. Al posto della foto ho messo una delle cartoline con le parole evocatrici di Assagioli, con scritto “fiducia”.
Mentre sulla parte nera, che ospita sempre nuove frasi su cui riflettere, questa settimana ho scritto col gessetto queste parole: “talvolta si deve essere indegni, per riuscire a vivere pienamente”.

Si tratta di una frase di Jung, che suscita in chi legge delle espressioni interrogative e molto perplesse... a nessuno piace la parola “indegni” sembra una nota stonata in un brano armonico.

Rimanda ad aspetti negativi, a immagini di sé da rinnegare, condannare e nascondere.

Il giudizio fa presto capolino e si impone, lasciando spazio poi al sentirsi cattivi, egoisti e spregevoli.

Come è possibile che si debba essere così per poter vivere pienamente? Che cosa significa?

In questa frase è racchiuso tutto il tema dell'integrazione dell'Ombra, ovvero quella parte di noi di cui ci vergogniamo, che non riteniamo degna di essere mostrata, né agita.

L'ombra non è cattiva tout court, ma è formata da materiale grezzo, energeticamente potente ma disorganizzato, frutto e conseguenza di tutto ciò che ci è stato detto che non va bene, oppure che abbiamo dedotto non andasse bene, perché non veniva accettato da chi stava intorno a noi, soprattutto nei primi anni di vita.

Il materiale psichico che va a costituire l'ombra, resta sepolto nell'inconscio, ma allo stesso tempo esige espressione, perché contiene un'energia che vista da altri punti di vista potrebbe essere reimpiegata in modalità creative e costruttive per la nostra vita.

Se, anche inconsapevolmente, la teniamo bloccata, essa comunque emerge, magari sotto forma di sintomi emotivi ma anche fisici, reazioni improvvise che ci lasciano sconcertati, oppure attraverso il rapporto con gli altri, nel fenomeno della proiezione.

Proiettare qualcosa significa attribuire all'altro un nostro pensiero, un'emozione, un desiderio che non riconosciamo/accettiamo, separandosene, perché il riconoscerlo metterebbe a repentaglio il nostro senso di identità, facendo emergere parti che consideriamo “pericolose”.

Un esempio classico è quello usato da Freud per spiegare il funzionamento paranoide: la persona che non si concede di riconoscere in sé di odiare qualcuno, proietta su quel qualcuno il sentimento di odio nei suoi confronti, che lo giustifica poi ad odiarlo a sua volta.

Semplificando ancora, se per esempio rinneghiamo dentro di noi pulsioni aggressive (identificandoci in una persona molto mite e buona) può essere che tenderemo a vivere gli altri come cattivi condannandoli, oppure se ripudiamo la nostra parte sofferente e triste (magari comportandoci nella nostra vita all'opposto), tenderemo a mal sopportare le persone che ci ricordano la tristezza e la sofferenza, allontanandocene.

Ovviamente questo accade per quelle parti rifiutate in toto, quando ci identifichiamo in una sola delle due polarità di cui il nostro animo è popolato (es. buono/cattivo, corretto/scorretto, allegro/triste...) tralasciando nell'ombra l'altra che diventa energia ipotecata.

Uno dei modi per capire quali sono le nostre parti Ombra (perché ce ne sono varie sfaccettature!) è chiedersi “che cosa ha a che fare con me?” ogni qualvolta che una persona ci irrita col suo atteggiamento, quando ci teniamo alla larga da certi tipi di comportamenti, quando diventiamo giudicanti e intransigenti su certe posizioni, rifiutando di mettersi in discussione...

Integrare l'Ombra significa affrontare la possibilità che quella cosa che ci rende così infastiditi sia parte della nostra energia rifiutata che tenta di esprimersi come può attraverso le relazioni interpersonali, per farsi vedere e sentire, per accedere alla coscienza in maniera alternativa, visto che noi la riteniamo “indegna” di appartenerci.

Il primo passo per riappropriarsi di questa energia è riuscire ad ammettere che siamo fatti anche della sua materia, che il suo voltaggio psichico non ci è estraneo (rimanendo negli esempi, che anche noi siamo aggressivi, che siamo anche tristi e sofferenti ecc..), occorre vederla all'opera dentro di noi, donandogli un contesto, un oggetto, e anche scoprendo i motivi che ci hanno portato – spesso nostro malgrado – a doverla reprimere.

Ogni volta che sentiamo che una parte è “indegna” occorre chiedersi: “per chi?” "per me o per qualcuno che me l'ha fatta credere tale?" e magari scoprire che non siamo stati noi ad attribuirle quel valore.

Recuperare l'ombra significa sentire ciò che si prova e in maniera sincera vedere quello che c'è nel nostro animo. Al di là del bene e del male, oltre al giudizio e il pregiudizio.

Poi pian piano permettere a quelle parti di entrare a far parte del quotidiano, donandogli un posto, una direzione e un contesto, di modo che non abbiano più bisogno di uscire in modo maldestro e irruento; tutto questo serve per poterci vivere a pieno, senza privarci a priori di una ricchezza di risposte creative e alternative, proprio come auspicato da Jung.
Buona settimana

virginia