“Meglio che l'anima soffra
vedendo
il corpo squarciato e
decomposto
piuttosto che non soffra per
inesistenza”
(G. Ceronetti)
Si chiuse la porta alle
spalle.
Un giro di chiave,
nessuno ci avrebbe fatto caso: si chiudeva in bagno e ci stava per
ore, finché qualcun altro non era spinto da un'urgenza improrogabile
a fare uso di quella stanza che veniva affettuosamente chiamata da
tutti “la tua seconda camera”.
Si rifugiava lì da
qualche anno, da quando aveva cominciato a sentire quel pudore che la
portava a nascondersi, tanto che a volte avrebbe voluto essere
invisibile, in modo che nessuno sguardo si posasse su di lei. Questo
sentimento pavido si scontrava però con quella voglia che a volte le
nasceva dalle viscere e la portava a voler essere al centro del
mondo, imporre la sua presenza, la sua volontà, il bisogno di
essere vista, in ogni modo, forse per combattere l'impotenza di
sentirsi inutile o di non sentirsi affatto.
Aprì l'anta bianco
pallido dell'armadietto sospeso, smangiucchiato dal tempo in
quell'angolo vicino al muro, che solo lei notava.
Nessuno vi metteva il
naso, a meno che non cercasse qualche trucco per Halloween o
carnevale.
La mamma aveva il suo
beauty educato che troneggiava sulla mensola, i prodotti in fila
indiana a seguire, puliti e lucidi come in un negozio di lusso.
Al papà bastava quel
bicchiere di vetro con spazzolino e dentifricio e il rasoio elettrico
in sosta qualche centimetro più in là, il cui filo veniva
opportunamente arrotolato dalle mani di sua moglie ogni mattina.
Luca, suo fratello, era
ancora nella fase in cui andava obbligato a lavarsi, per cui le sue
tappe in bagno si limitavano a qualche minuto fisiologico oppure
sotto il controllo vigile della mamma, giusto per sciacquarsi la
faccia e pulire i denti mattina e sera.
Dietro l'anta pallida si
schiudeva invece il suo piccolo mondo in technicolor.
Smalti in tutte le
tonalità più accese, trousse con ombretti che avrebbero fatto
inorridire anche la nonna, nonostante la sua fedeltà all'azzurro
cielo nello sguardo e al rosso carminio sulle labbra. Creme per il
corpo golose e succulente, da usare con cautela nelle gite in
campagna perché attiravano gli insetti che la scambiavano per un
fiore ambulante.
E poi c'era il suo
segreto.
Dentro il piccolo beauty
di cotone a quadretti lilla, la scatolina di un anello celava nel
sottofondo di cartone l'oggetto proibito.
La lama che negli ultimi
tempi le faceva compagnia nella solitudine fredda delle piastrelle
rosa antico.
Sapeva che non doveva
farlo. Sapeva che erano in tantissimi a disobbedire.
E questo la faceva stare
bene: una vendetta consumata in massa.
Una ferita sottile
accanto all'altra, solchi cadenzati che tagliavano l'epidermide,
prima segni bianchi poi lentamente riempiti di rosso, che donavano un
sollievo immediato, risanavano l'urgenza di esserci.
Toccare poi le cicatrici
con i polpastrelli le provocava un brivido di terrore e piacere allo
stesso tempo.
Si sentiva potente, ma
anche terribilmente sconfitta.
Ho voluto cominciare con
questa storia frutto della mia creatività, per provare a introdurre
un disagio sempre più diffuso fra le adolescenti, ma non solo.
Le statistiche rivelano che
si tratta comunque di un fenomeno marcatamente femminile.
La mia esperienza nel
sostegno a ragazze e donne che si sono procurate lesioni conferma ciò
che si trova in letteratura: si tratta di trasferire sul proprio
corpo un dolore emotivo troppo grande da contenere sul piano
psichico.
Il ferirsi diventa un modo
per incanalare un'aggressività che non riesce a essere elaborata
altrimenti. È una punizione e un sollievo nello stesso momento.
Il dolore fisico è un
distrattore. Se ti concentri su quello per un po' non pensi ad altro.
E infine diventa una dipendenza.
La protagonista della storia
è una ragazza come tante.
Questo comportamento non nasce solo in
situazioni sbandate o ai margini.
Anche perché oggi il tam
tam mediatico crea mode pure nell'espressione del dolore.
Ci sono piattaforme dove le
ragazze tengono testimonianza di ogni segno sulla loro pelle, che
fanno del cutting un mezzo per parlare di sé, con sé stesse e con
gli altri.
Questo però in una logica
adolescenziale dove l'emulazione la fa da padrona, diventa un modo
per far dilagare un'epidemia.
Alcune iniziano per provare,
proprio perché leggono le “soluzioni” altrui.
Gli stati d'animo sono
vicini, caotici: rabbia, tristezza, confusione.
Quale adolescente non li ha
mai provati?
Se però i pari – che
sono i modelli preferiti a questa età – donano una “via
d'uscita” che fra gli “effetti collaterali” dona anche
visibilità sulla rete, il gioco è fatto.
Il conflitto si sposta
proprio su questa ambivalenza fra visibilità e inesistenza, fra
vergogna e ostentazione, fra bisogno di essere rassicurati e
desiderio di autonomia.
Infondo il taglio non è che
l'esasperazione all'ennesima potenza di un tatuaggio.
So che è un'affermazione
azzardata.
Ma un po' ci permette di avvicinarsi al loro mondo che
all'apparenza sembra così incomprensibile.
Segnare il proprio corpo con un tatoo è
comunque un atto di autoaffermazione.
Il bisogno di portare sulla
propria pelle un'emozione, un ricordo, una persona.
Si soffre e poi si è fieri
di mostrarlo al mondo.
Un po' è quello che succede
anche a queste ragazze.
Manifestano vissuti e
sentimenti che non riescono a dire altrimenti.
Vanno aiutate a dare voce,
parole e significato a ciò che provano.
Trasformare l'agito in
narrazione, in gesti produttivi di senso.
Perché quei segni non
restino solo cicatrici indelebili di un dolore fine a se stesso.
Buona settimana
virginia
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