lunedì 21 luglio 2014

Le ferite delle adolescenti: cutting e autolesionismo



 “Meglio che l'anima soffra vedendo
il corpo squarciato e decomposto
piuttosto che non soffra per inesistenza”
(G. Ceronetti)

Si chiuse la porta alle spalle.
Un giro di chiave, nessuno ci avrebbe fatto caso: si chiudeva in bagno e ci stava per ore, finché qualcun altro non era spinto da un'urgenza improrogabile a fare uso di quella stanza che veniva affettuosamente chiamata da tutti “la tua seconda camera”.
Si rifugiava lì da qualche anno, da quando aveva cominciato a sentire quel pudore che la portava a nascondersi, tanto che a volte avrebbe voluto essere invisibile, in modo che nessuno sguardo si posasse su di lei. Questo sentimento pavido si scontrava però con quella voglia che a volte le nasceva dalle viscere e la portava a voler essere al centro del mondo, imporre la sua presenza, la sua volontà, il bisogno di essere vista, in ogni modo, forse per combattere l'impotenza di sentirsi inutile o di non sentirsi affatto.
Aprì l'anta bianco pallido dell'armadietto sospeso, smangiucchiato dal tempo in quell'angolo vicino al muro, che solo lei notava.
Nessuno vi metteva il naso, a meno che non cercasse qualche trucco per Halloween o carnevale.
La mamma aveva il suo beauty educato che troneggiava sulla mensola, i prodotti in fila indiana a seguire, puliti e lucidi come in un negozio di lusso.
Al papà bastava quel bicchiere di vetro con spazzolino e dentifricio e il rasoio elettrico in sosta qualche centimetro più in là, il cui filo veniva opportunamente arrotolato dalle mani di sua moglie ogni mattina.
Luca, suo fratello, era ancora nella fase in cui andava obbligato a lavarsi, per cui le sue tappe in bagno si limitavano a qualche minuto fisiologico oppure sotto il controllo vigile della mamma, giusto per sciacquarsi la faccia e pulire i denti mattina e sera.
Dietro l'anta pallida si schiudeva invece il suo piccolo mondo in technicolor.
Smalti in tutte le tonalità più accese, trousse con ombretti che avrebbero fatto inorridire anche la nonna, nonostante la sua fedeltà all'azzurro cielo nello sguardo e al rosso carminio sulle labbra. Creme per il corpo golose e succulente, da usare con cautela nelle gite in campagna perché attiravano gli insetti che la scambiavano per un fiore ambulante.
E poi c'era il suo segreto.
Dentro il piccolo beauty di cotone a quadretti lilla, la scatolina di un anello celava nel sottofondo di cartone l'oggetto proibito.
La lama che negli ultimi tempi le faceva compagnia nella solitudine fredda delle piastrelle rosa antico.
Sapeva che non doveva farlo. Sapeva che erano in tantissimi a disobbedire.
E questo la faceva stare bene: una vendetta consumata in massa.
Una ferita sottile accanto all'altra, solchi cadenzati che tagliavano l'epidermide, prima segni bianchi poi lentamente riempiti di rosso, che donavano un sollievo immediato, risanavano l'urgenza di esserci.
Toccare poi le cicatrici con i polpastrelli le provocava un brivido di terrore e piacere allo stesso tempo.
Si sentiva potente, ma anche terribilmente sconfitta.

Ho voluto cominciare con questa storia frutto della mia creatività, per provare a introdurre un disagio sempre più diffuso fra le adolescenti, ma non solo.
Le statistiche rivelano che si tratta comunque di un fenomeno marcatamente femminile.
La mia esperienza nel sostegno a ragazze e donne che si sono procurate lesioni conferma ciò che si trova in letteratura: si tratta di trasferire sul proprio corpo un dolore emotivo troppo grande da contenere sul piano psichico.
Il ferirsi diventa un modo per incanalare un'aggressività che non riesce a essere elaborata altrimenti. È una punizione e un sollievo nello stesso momento.
Il dolore fisico è un distrattore. Se ti concentri su quello per un po' non pensi ad altro. E infine diventa una dipendenza.

La protagonista della storia è una ragazza come tante. 
Questo comportamento non nasce solo in situazioni sbandate o ai margini.
Anche perché oggi il tam tam mediatico crea mode pure nell'espressione del dolore.
Ci sono piattaforme dove le ragazze tengono testimonianza di ogni segno sulla loro pelle, che fanno del cutting un mezzo per parlare di sé, con sé stesse e con gli altri.
Questo però in una logica adolescenziale dove l'emulazione la fa da padrona, diventa un modo per far dilagare un'epidemia.
Alcune iniziano per provare, proprio perché leggono le “soluzioni” altrui.
Gli stati d'animo sono vicini, caotici: rabbia, tristezza, confusione.
Quale adolescente non li ha mai provati?
Se però i pari – che sono i modelli preferiti a questa età – donano una “via d'uscita” che fra gli “effetti collaterali” dona anche visibilità sulla rete, il gioco è fatto.
Il conflitto si sposta proprio su questa ambivalenza fra visibilità e inesistenza, fra vergogna e ostentazione, fra bisogno di essere rassicurati e desiderio di autonomia.
Infondo il taglio non è che l'esasperazione all'ennesima potenza di un tatuaggio.
So che è un'affermazione azzardata. 
Ma un po' ci permette di avvicinarsi al loro mondo che all'apparenza sembra così incomprensibile.
Segnare il proprio corpo con un tatoo è comunque un atto di autoaffermazione.
Il bisogno di portare sulla propria pelle un'emozione, un ricordo, una persona.
Si soffre e poi si è fieri di mostrarlo al mondo.

Un po' è quello che succede anche a queste ragazze.
Manifestano vissuti e sentimenti che non riescono a dire altrimenti.
Vanno aiutate a dare voce, parole e significato a ciò che provano.
Trasformare l'agito in narrazione, in gesti produttivi di senso.
Perché quei segni non restino solo cicatrici indelebili di un dolore fine a se stesso.

Buona settimana
virginia 

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