Qualche settimana fa è scoppiato il caso
del Fertility Day – la campagna del Ministero della Salute che
attraverso slogan pubblicitari discutibili da diversi punti di vista,
voleva promuovere il concetto di fecondità femminile e quindi
incentivare le nascite italiane, sempre meno numerose.
Ho atteso un po' di giorni prima di
scrivere qualcosa, perché lungi dal fare polemica – sui social ce
n'è stata fin troppa, anche se in alcuni casi con articoli acuti e
intelligenti – volevo percepire qualcosa di più rispetto allo
sdegno e alla rabbia collettive.
Volevo riflettere e andare più in
profondità, perché questo lavoro mi porta ad osservare che laddove
c'è suscettibilità, spesso è celato un conflitto interiore e
quando la reazione è molto forte, occorre trovare la corda sensibile
che è stata toccata.
Così mi sono chiesta: quanti e quali
dolori ha risvegliato quel messaggio che all'apparenza esorta alla
vita a alla gioia?
Ho immaginato di poter dar loro voce,
creando monologhi che affondano le radici nelle verità che ascolto
ogni giorno, ma da quelle prendono solo lo spunto, vivendo qui di
vita propria.
Sono voci apparentemente diverse e
protagoniste di storie che sembrano inconciliabili, ma tutte
possibili nella vita di ciascuna donna.
Un battito di ciglia.
Forse è questo il tempo in cui ha
sostato nella mia pancia.
Mi prendono tutti per matta ormai,
perché ogni mese sostengo di essere capace di “sentire” se
quell'incontro di cellule è stato fecondo oppure no.
Ma inesorabilmente al posto del
battito di vita riesco solo a generare un grumo di sangue raccolto da
una carezza assorbente.
Eppure lo so che proprio quel mese là,
qualcosa era cambiato.
Una donna lo sa.
Una madre lo sa ancora di più.
E io lo sono stata, anche se solo per
un battito di ciglia.
Sto male.
Mi sento come imprigionata fra queste
quattro mura.
Prima di lui qui mi sentivo una
regina, adesso mi sento una schiava che non ha via d'uscita.
Questo fagotto che strilla nella culla
non si accontenta del latte che ormai stenta a uscire dai miei aridi
seni: possibile che assorba come spugna tutta la vita che prima mi
scorreva nelle vene?
Sono un mostro, lo so.
Non mi merito questo figlio.
Ma sono stanca, non dormo da mesi,
tutto mi sembra difficile, irraggiungibile, un tormento senza fine.
Mi interrogo senza trovare risposte.
Dove è quell'idillio che vedi nelle
vite delle altre?
Dove sono i gorgheggi? Dove sono i
sorrisi? Dove l'estasi e la gioia?
È tutta una questione di scelta.
Arriva un momento nella vita in cui
devi decidere, fra te e un ipotetico bimbo che potrà cambiare il tuo
futuro.
Io ho scelto il cambiamento.
Dopo anni dedicati a cercare una mia
dimensione – anni pesanti di libri e viaggi lontano da casa – ho
deciso finalmente di fermarmi.
Ho desiderato mia figlia con
l'entusiasmo dei vent'anni, anche se ne avevo già trentacinque.
Lei è arrivata, senza farsi
attendere, piombata nella nostra vita, pronta ad accoglierla.
Credevo di poter scegliere anche dopo
di lei.
Invece mi ritrovo in un limbo di
incertezza, perché si sa, in questo paese mamma e professionista
sono due parole mutuamente escludentesi, a priori, ma l'ho imparato a
mie spese.
Io però sono pronta a cambiare
ancora, è l'unica scelta che mi resta.
Lo faccio per me. E adesso anche per
lei.
La soglia.
Arrivata ai trenta, con un marito, una
casa e un lavoro, cominci a far caso agli sguardi interrogativi degli
altri che si dividono fra quelli di pena e quelli di biasimo.
Non so quali sono quelli che odio di
più.
I primi si soffermano su di te quando
si parla di figli altrui, incerti se l'argomento sia o meno un tasto
dolente. I tradizionalisti semplicemente posano occhi addolorati su
quella che credono una misera condizione femminile, privata dal fato,
del normale corso delle cose.
I più libertari incedono con fare
indagatore, attenti a non ferire né fare gaffe difficili da
bonificare, lasciando sempre uno spiraglio alla possibilità di
un'alternativa.
Gli occhi che condannano invece
arrivano pungenti e diretti, le rare volte in cui ti esponi
affermando che no, non è una sciagura, è una scelta quella di non
essere madre. Anche qui, gli ortodossi sentenziano sicuri, gli altri
si limitano a lasciare sospesi nell'aria i perché.
Resta comunque difficile spiegare a
chi crede di avere già capito tutto.
Questi frammenti di storie rendono
omaggio alle emozioni più intime, ciascuna degna di essere
ascoltata.
Oltre alla sensibilizzazione medica dovrebbe essere maggiormente divulgata anche quella psicologica, perché ci sono ancora troppe storie di sofferenza femminile che non trovano terreno fertile per essere narrate.
È importante raccontare e dare
testimonianza, più che arrabbiarsi e sguainare le spade, perché è
solo nella narrazione e condivisione che la sofferenza si supera.
Buona settimana
virginia
[avevo già parlato di altre forme di dolore legate alla mancata maternità, se vuoi lo trovi qui]