Come anticipato da Evi la settimana
scorsa (qui), oggi vi parlerò della liberazione dai condizionamenti
dal punto di vista della Psicosintesi e di come qualcosa che viene considerato "problema" possa essere osservato da diversi punti di vista.
Come giustamente riportato nell'articolo
di Osho, in Oriente la prospettiva di approccio a ciò che noi
definiamo “problemi” è molto differente dalla nostra.
In primo luogo, si pensa
che non esista un problema serio. Nel momento in cui affermi che
nessun problema è serio, il problema è per il novanta per cento già
morto. Il modo in cui lo vedi cambia completamente.
(The tantra vision)
Questo è possibile se siete
già dei Budda nel pieno dell'estasi mistica.
Purtroppo ascolto ogni
giorno storie di sofferenza e dolore emotivo che hanno bisogno di
trovare uno spazio di accoglienza, storie che si sono trascinate per
anni e anni sotto la maschera del “non è una cosa seria” e
“tutto passa se lo vuoi”, e spesso è necessario riabilitarle al
loro valore assoluto di trauma personale, prima di poterle superare e
trasformare.
La seconda cosa che si
sostiene in Oriente, è che il problema esiste perché sei
identificato con esso
Questo aspetto invece mi trova concorde e
anzi, rappresenta il perno di un importante concetto psicosintetico,
che Assagioli ha introdotto in Occidente molto prima di Osho,
rifacendosi comunque alle filosofie orientali, di cui era un grande
studioso.
Noi siamo dominati da tutto ciò in
cui il nostro io si identifica.
Possiamo dominare, dirigere ed
utilizzare tutto ciò da cui ci disidentifichiamo.
(R. Assagioli – Atto di Volontà,
pag. 156)
La nostra personalità (da persona
= maschera) è fatta di numerosi aspetti, e, nonostante ci percepiamo
tutti d'un pezzo, noi siamo una molteplicità (ne abbiamo parlato
qui).
Siamo
soliti giudicare la pluralità come deviazione dalla norma, tanto che
anche il manuale diagnostico dei disturbi mentali classifica il
Disturbo da personalità multiple, che appaiono nei momenti più
disparati e fanno compiere cose bizzarre che la personalità
dominante non riesce a controllare; in letteratura, Pirandello, Hesse
e Pessoa sono solo alcuni degli autori che hanno dato vita a
personaggi in cui il molteplice è il filo conduttore dell’esistenza,
un esistenza però condotta ai margini della società, ritenuti molto
vicini al labile confine fra normalità e patologia.
E’ quindi normale che tutto questo ci
spaventi e tentiamo nella vita di tutti i giorni di sopprimere il
molteplice a favore di un’unità che è in linea invece con la
condivisa definizione di personalità come “organizzazione
relativamente stabile delle disposizioni motivazionali d’un
individuo”.
Ciascuno di noi quindi, tende a fondare
la propria identità su pochi aspetti che riteniamo fondanti e
fondamentali, ad es. il ruolo ricoperto nella propria vita (il capo,
il terapeuta, lo studente...), una caratteristica temperamentale
predominante (il calmo, la “testa calda”, la brava bambina...) un
sentimento prevalente in una fase specifica (l'innamorato, ma anche
la depressa, l'ansioso...).
Questo accade perché definirsi
attraverso pochi elementi dà un senso di sicurezza alla nostra
identità e permette di farsi conoscere nel mondo attraverso
comportamenti tipici, che servono a noi, ma anche agli altri.
(Si, se ci "conosciamo" maggiormente nell'aspetto ansioso o depresso, quello è un punto fermo che dà sicurezza comunque, anche se sembra un controsenso).
Identificarsi è necessario
ed inevitabile perché permette a ciascun individuo di avere una base
sicura su cui strutturare la propria identità, almeno per un periodo
o in un contesto particolare (in famiglia, al lavoro, con gli
amici...)
Possiamo però, vedere anche il lato negativo di attaccarsi a un solo aspetto di noi.
Possiamo però, vedere anche il lato negativo di attaccarsi a un solo aspetto di noi.
Vi farò alcuni esempi che lo stesso
Assagioli faceva: l'atleta che diventa vecchio e perde la sua energia
fisica, l'attrice la cui avvenenza fisica sfiorisce, la madre che
rimane sola quando i figli crescono, il capo che se ne deve andare in
pensione ecc... rischiano di percepire un senso di perdita, di
fallimento e di crisi interiore che minano l'equilibrio psicofisico.
In quest'ottica, anche i “problemi”
non sono altro che ulteriori identificazioni con aspetti di sé.
Come vedo spesso, le persone che arrivano
nel mio studio si definiscono ansiose, depresse, o si presentano
attraverso una malattia (sono anoressica, sono fobico ecc...) o un
disagio (“sono qui perché sto male”) perché ormai basta aprire
internet e si può fare una diagnosi, col rischio però di affibbiare
– e affibbiarsi – etichette riduttive che perdono di vista la
persona intera, in tutta la sua molteplicità.
Così, la prima domanda da porsi è: chi
mi sta raccontando queste cose?
Di solito le espressioni dei miei
interlocutori si fanno interrogative a loro volta... non capiscono
cosa intendo.
Io mi riferisco al loro testimone
interiore, alla parte che osserva e può raccontare come si sentono
in certe situazioni, cosa percepiscono nel corpo attraverso i
sintomi, cosa pensano in conseguenza di certi eventi...
La parte che osserva non è mai la stessa
che soffre.
È diverso “essere” depressa/o dal
riconoscere che c'è una parte di sé depressa e triste (il che vuol
dire che ce ne può essere anche una che non lo è).
Si tratta di una rivoluzione.
Questo testimone interiore, centro di
consapevolezza e autocoscienza, Assagioli lo chiama “io”, l'unica
parte di noi che rimane sempre uguale a se stessa, senza contenuti.
L'io acquisisce contenuti quando si
identifica.
Ma allo stesso tempo può anche
disidentificarsi (ovvero scegliere di distogliere attenzione
consapevole a quel contenuto specifico, evitando di sentirsi “solo”
quello).
Assagioli aveva messo a punto il
cosiddetto “Esercizio di disidentificazione” da effettuare in una
posizione comoda, rilassata, come ripetizione di consapevolezza:
Io ho un corpo ma non
sono (solo) il mio corpo. Il mio corpo si può trovare in varie
situazioni di salute o di malattia, può essere riposato o stanco, ma
non ha niente a che fare con me stesso, con il mio vero io. [...]
Io ho delle emozioni, ma
non sono (solo) le mie emozioni. Le mie emozioni sono varie,
mutevoli, a volte contraddittorie. Possono passare dall’amore
all’odio, dalla calma all’ira, dalla gioia al dolore, e tuttavia
la mia essenza – la mia vera natura – non cambia, “io”
rimango. […]
Io ho una mente ma non
sono (solo) la mia mente. La mia mente è un prezioso strumento di
ricerca e di espressione, ma non è l’essenza del mio essere. I
suoi contenuti cambiano continuamente mentre essa abbraccia nuove
idee, conoscenza ed esperienza. [...]
Io ho dei desideri, ma
non sono (solo) i miei desideri. I desideri sono provocati dagli
impulsi, fisici ed emotivi, e da altre influenze. [...]
Io sono un centro di
volontà capace di osservare, dirigere ed usare tutti i miei processi
psicologici ed il mio corpo fisico.
Attenzione però!
Disidentificarsi non significa rifiutare parti preziose del nostro
bagaglio psichico, poiché è necessario riappropriarsene per
esprimere le molte sfaccettature che ci appartengono, e che magari, viste
sotto una luce diversa, possono diventare delle energie costruttive. Occorre uscire dalla logica del sono "solo" questo o quello ma cominciare ad affermare che sono "anche" questo e quello, mettendo l'accento sull'inclusione invece che sull'esclusione.
Che ne dite di dedicare
questa settimana alla scoperta delle false identificazioni che vi
condizionano? (potete trovare qui qualche spunto di lavoro)
Oppure, visto che siamo a
carnevale, di scoprire di quali e quante maschere vi fregiate per
vivere i vostri personaggi interiori?
L'io è come un regista: una
volta definiti e conosciuti i personaggi, padroni delle loro
caratteristiche e potenzialità, può creare un capolavoro, magari
degno di un Oscar, visto che siamo in tema.
“...è
tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore,
il
silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura
…gli
sparuti incostanti sprazzi di bellezza
e
poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile”
(Jep
in “La grande bellezza”
Oscar
2014 miglior film straniero)
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