lunedì 24 giugno 2013

Narcisismo del vivere quotidiano


 
 
Quando non posso tornare a casa per pranzo, perché sono nello studio più lontano, mi fermo a mangiare in un bar – il solito – perché sono un'abitudinaria cui piace circondarsi di luoghi familiari. Qui mi ritaglio una pausa di tempo e, mangiando, sfoglio il settimanale Io donna, dove a volte trovo qualche spunto di riflessione per i post del blog.

Una delle rubriche che leggo volentieri è quella nell'ultima pagina, scritta da Serena Dandini, la quale, utilizzando metafore floreali, tratta di temi politici, culturali e di genere – usando il titolo evocativo di antiche lotte per i diritti civili: “il pane e le rose”.

Così qualche settimana fa mi ero appuntata a matita sul ritaglio d'agenda che accoglie i pensieri fuggenti, questo titolo che ho dato al post di oggi, con questa frase:

i nuovi mezzi hanno aiutato questa trasformazione antropologica che fa sì che un essere umano, quando ne incontra un altro, possa chiedere serafico: «Ciao, come sto?». [Trovi l'articolo completo qui ]

indice che ormai il narcisismo è diventato non solo disturbo di personalità che invalida le relazioni a due, bensì calamità sociale, auto-referenzialità allo stato puro, che rischia di impedire ogni incontro con gli altri.

La stessa Dandini, dice di partecipare a un corso per imparare ad ascoltare, dove si parte da semplici esercizi di buon senso:

Il più antico, che non delude mai, è di contare fino a dieci prima di parlare e l’altro, che va di pari passo, è di imparare ad ascoltare qualcuno che stranamente non sta parlando di voi. All’inizio è difficile, vorreste subito interrompere con un bel: «Anch’io, sai…». O, peggio, mentre fate finta di mostrare interesse, cominciare a frugare nella borsa per controllare le email sullo smartphone.

Così mi è venuta in mente una frase del filosofo Martin Buber che recitava più o meno così: la vita vera è solo nell'incontro.

Questa semplice frase riassume tutto il suo pensiero, l'invito a non fare dell'incontro con l'altro uno sterile confronto fra oggetti, bensì rendere onore alla soggettività e unicità, riconoscendo nella persona che si ha di fronte, un “tu” e non un “esso”.

Altrimenti si cade nella trappola del narcisismo, dove l'altro finisce per avere un senso solo come specchio, come mezzo per confermare, affermare, rafforzare la propria identità.

Se permetto all'altro di esser-ci nel rapporto, può nascere un dialogo, altrimenti si tratta di uno sterile monologo (ne avevo già parlato anche qui ).

Ma cosa c'è alla base di questa tendenza che permea le relazioni di una patina impermeabile che non permette di andare oltre la superficie riflettente?

C'è un malcelato bisogno di essere al centro delle attenzioni di qualcuno, per acquistare valore e significato. C'è la ferita originaria di un mancato riconoscimento, quando gli occhi di chi ci doveva riconoscere non lo hanno fatto a sufficienza. C'è il desiderio di essere visto, di essere riconosciuto come importante e degno di ascolto.

Perché, dietro a tutto questo, c'è la paura che, se il mondo non ti guarda, potresti non esistere.

Allo stesso tempo però, se il mondo ti osserva, ti senti in dovere di corrispondere a ciò che si aspetta da te, altrimenti non vieni preso in considerazione.

L'anonimato, nella nostra società mediatica, viene fuggito ormai come la peste.

Meglio contatti mordi e fuggi che il non-contatto, meglio un tweet che racconti il pensiero in diretta – anche se non richiesto – che tacere e riflettere in solitudine, perché ormai, guardarsi dentro, non è più molto di moda.

Il problema è che tutti questi mezzi, nonostante i “mi piace” e i commenti, sono inevitabilmente autoreferenziali. C'è una platea che legge, che assiste, condivide anche, ma l'incontro della “vita vera” di Buber è tutta un'altra cosa.

Anche queste mie parole affidate alla rete sono tutt'altro dai vissuti che palpabili, si fanno sentire con tutti i sensi nella mia stanza, ogni volta che entra una persona e racconta la sua vita.

Il rischio di una società narcisista è di voler mostrare solo la bella facciata, la copertina traslucida, colorata e accattivante delle esistenze, rigettando tutto quello che non gli corrisponde, escludendo le pagine in bianco e nero, oppure al lato opposto esaltandole, come unica via possibile in una gara di esasperazione, che fa della vita tragedia o commedia, l'importante è che lo share sia alto.

Oggi voglio celebrare invece la bellezza di un'esistenza fuori dal palcoscenico, il recupero delle esperienze semplici, come il chiedere a qualcuno come stai, solo se si ha voglia davvero di saperlo (e ascoltarlo), non come sterile copione di una parte recitata; oppure "proteggere" un pensiero, un'esperienza, una riflessione, trattenendosi dall'impulso di postarlo da qualche parte, permettendogli di metter radici interiori, invece di affidarlo subito al vento delle relazioni virtuali, che può farlo atterrare su terra feconda, ma anche sull'asfalto. Che di questi tempi, con queste temperature, sarebbe davvero un peccato.


Buona settimana

virginia

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