Quando
non posso tornare a casa per pranzo, perché sono nello studio più
lontano, mi fermo a mangiare in un bar – il solito – perché
sono un'abitudinaria cui piace circondarsi di luoghi familiari. Qui
mi ritaglio una pausa di tempo e, mangiando, sfoglio il settimanale
Io donna, dove a volte trovo qualche spunto di riflessione per
i post del blog.
Una
delle rubriche che leggo volentieri è quella nell'ultima pagina,
scritta da Serena Dandini, la quale, utilizzando metafore floreali,
tratta di temi politici, culturali e di genere – usando il titolo
evocativo di antiche lotte per i diritti civili: “il pane e le
rose”.
Così
qualche settimana fa mi ero appuntata a matita sul ritaglio d'agenda
che accoglie i pensieri fuggenti, questo titolo che ho dato al post
di oggi, con questa frase:
i nuovi mezzi hanno
aiutato questa trasformazione antropologica che fa sì che un essere
umano, quando ne incontra un altro, possa chiedere serafico: «Ciao,
come sto?». [Trovi l'articolo completo qui
]
indice
che ormai il narcisismo è diventato non solo disturbo di personalità
che invalida le relazioni a due, bensì calamità sociale,
auto-referenzialità allo stato puro, che rischia di impedire ogni
incontro con gli altri.
La
stessa Dandini, dice di partecipare a un corso per imparare ad
ascoltare, dove si parte da semplici esercizi di buon senso:
Il più antico, che non
delude mai, è di contare fino a dieci prima di parlare e l’altro,
che va di pari passo, è di imparare ad ascoltare qualcuno che
stranamente non sta parlando di voi. All’inizio è difficile,
vorreste subito interrompere con un bel: «Anch’io, sai…». O,
peggio, mentre fate finta di mostrare interesse, cominciare a frugare
nella borsa per controllare le email sullo smartphone.
Così
mi è venuta in mente una frase del filosofo Martin Buber che
recitava più o meno così: la vita vera è solo nell'incontro.
Questa
semplice frase riassume tutto il suo pensiero, l'invito a non fare
dell'incontro con l'altro uno sterile confronto fra oggetti, bensì
rendere onore alla soggettività e unicità, riconoscendo nella
persona che si ha di fronte, un “tu” e non un “esso”.
Altrimenti
si cade nella trappola del narcisismo, dove l'altro finisce per avere
un senso solo come specchio, come mezzo per confermare, affermare,
rafforzare la propria identità.
Se
permetto all'altro di esser-ci nel rapporto, può nascere un dialogo,
altrimenti si tratta di uno sterile monologo (ne avevo già parlato
anche qui
).
Ma
cosa c'è alla base di questa tendenza che permea le relazioni di una
patina impermeabile che non permette di andare oltre la superficie
riflettente?
C'è
un malcelato bisogno di essere al centro delle attenzioni di
qualcuno, per acquistare valore e significato. C'è la ferita
originaria di un mancato riconoscimento, quando gli occhi di chi ci
doveva riconoscere non lo hanno fatto a sufficienza. C'è il
desiderio di essere visto, di essere riconosciuto come importante e
degno di ascolto.
Perché,
dietro a tutto questo, c'è la paura che, se il mondo non ti guarda,
potresti non esistere.
Allo
stesso tempo però, se il mondo ti osserva, ti senti in dovere di
corrispondere a ciò che si aspetta da te, altrimenti non vieni preso
in considerazione.
L'anonimato,
nella nostra società mediatica, viene fuggito ormai come la peste.
Meglio
contatti mordi e fuggi che il non-contatto, meglio un tweet che
racconti il pensiero in diretta – anche se non richiesto – che
tacere e riflettere in solitudine, perché ormai, guardarsi dentro,
non è più molto di moda.
Il
problema è che tutti questi mezzi, nonostante i “mi piace” e i
commenti, sono inevitabilmente autoreferenziali. C'è una platea che
legge, che assiste, condivide anche, ma l'incontro della “vita
vera” di Buber è tutta un'altra cosa.
Anche
queste mie parole affidate alla rete sono tutt'altro dai vissuti che
palpabili, si fanno sentire con tutti i sensi nella mia stanza, ogni
volta che entra una persona e racconta la sua vita.
Il
rischio di una società narcisista è di voler mostrare solo la bella
facciata, la copertina traslucida, colorata e accattivante delle
esistenze, rigettando tutto quello che non gli corrisponde,
escludendo le pagine in bianco e nero, oppure al lato opposto
esaltandole, come unica via possibile in una gara di esasperazione,
che fa della vita tragedia o commedia, l'importante è che lo
share sia alto.
Oggi
voglio celebrare invece la bellezza di un'esistenza fuori dal
palcoscenico, il recupero delle esperienze semplici, come il chiedere
a qualcuno come stai, solo se si ha voglia davvero di saperlo
(e ascoltarlo), non come sterile copione di una parte recitata; oppure "proteggere" un pensiero, un'esperienza, una riflessione, trattenendosi dall'impulso di postarlo da qualche parte, permettendogli di metter radici interiori, invece di affidarlo subito al vento delle relazioni virtuali, che può farlo atterrare su terra feconda, ma anche sull'asfalto. Che di questi tempi, con queste temperature, sarebbe davvero un peccato.
Buona
settimana
virginia
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