In
una delle mie pause pranzo al bar, mi è capitato di sfogliare una
vecchia rivista del settimanale Io donna, che nel numero
pre-natalizio aveva come tema “l'accoglienza”.
Al
suo interno questa parola veniva declinata in base alle diverse aree:
arte, attualità, articoli tematici, moda ecc... così, pagina dopo
pagina, mi sono trovata a riflettere sulla pluralità di significati
che questo termine può assumere nella nostra vita.
Nel
senso comune attribuiamo all'accoglienza un'accezione positiva,
usandola per definire quando, con benevolenza, lasciamo che qualcosa
o qualcuno entri nella nostra sfera di azione.
In
generale dunque, si tratta di permettere a qualcuno di avvicinarsi, a
un'idea di abitarci, un'emozione di lambirci.
Ad ogni modo l'accento
è sulla nostra capacità di decidere, di porci in una posizione in
cui lasciamo che qualcosa accada e, magari, lo facciamo di buon
grado, essendo nella disponibilità di gradire, di accettare.
Ma
accade sempre così?
Nella
rivista si faceva riferimento ai centri di accoglienza che in quel
periodo erano alla ribalta delle cronache per gli sbarchi a
Lampedusa, che mi sono sembrati una buona occasione per meditare
sull'altra faccia dell'accoglienza: il rifiuto.
Quando
siamo nella posizione di poter accogliere possiamo anche decidere di non
farlo: spesso essere colui che accoglie ci pone in una sorta di
superiorità che rende impari l'incontro.
Per
natura noi ci difendiamo da tutto ciò che mina il nostro status quo,
il nostro equilibrio e le nostre sicurezze (ne abbiamo parlato anche
qui) quindi mi viene da chiedere: davvero l'accoglienza è un
processo di apertura reale oppure è semplicemente un ratificare
qualcosa che dentro di noi è già accettato e metabolizzato? Si può
realmente accogliere qualcosa o qualcuno che fino a poco tempo prima
era rifiutato e negato?
Spesso
siamo così disponibili ad accogliere alcuni aspetti di una persona a
cui teniamo, ma allo stesso tempo ne rifiutiamo altri, quasi a dire
“ti voglio solo se rispetti ciò che mi piace”. Ma è possibile
che una persona ci piaccia a trecentosessanta gradi?
Quanto
siamo disposti a rischiare rendendoci disponibili a lasciarsi
permeare da qualcosa di sconosciuto, diverso, che esula da ciò che
ci fa sentire integri?
Accogliere
il nostro simile è davvero accoglienza?
Mi
piace giocare coi fonemi e separare i significati: ac-cogliere.
E
se di fronte a una situazione sconosciuta, non ci si limitasse a
vedere ciò che ci corrisponde, bensì ci chiedessimo che cosa
possiamo cogliere di unico e originale in quella persona, emozione o
esperienza? Non si tratta di attribuirgli un valore: bene o male,
bello o brutto.
Semplicemente
cogliere un aspetto, qualcosa che colpisce, che cattura la nostra
attenzione, che ci sorprende o stupisce, ci spaventa, ci irrita, o ci
strappa un sorriso...
Ecco,
quello è il momento in cui comunque, sotto diverse forme, una nuova
energia entra in contatto con noi.
Se
riusciamo a non volerla subito catalogare, potremmo sentire dove ci
porta, come parla di noi la reazione immediata che abbiamo, per
scoprire nuove cose, prima ancora che fuori, dentro.
“Ecco la tua malattia:
pretendi di rinchiudere vita nelle tue formule, di abbracciare tutti
i fenomeni della vita con la tua mente, invece di lasciarti
abbracciare dalla vita. Va bene che tu affacci la tua testa in cielo,
ma non che tu cacci il cielo nella tua testa. Ogni volta vorresti
rifare il mondo, invece di goderlo com’è. È un atteggiamento
alquanto dispotico”
(Hetty Hillesum Diari
1941-43, pag. 64).
buona
settimana
virginia
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