Nella
giungla quotidiana di teorie, terapie, percorsi di cura, mi capita
spesso che le persone mi chiedano in che cosa consiste esattamente il
lavoro di psicoterapia.
Mi
trovo sempre un po' smarrita nel dover dare una definizione netta,
perché non esiste un percorso di terapia uguale a un altro e spesso
uso questa frase: “è come un vestito su misura che va cucito
addosso”.
La
sofferenza è una dimensione dell'animo umano che ci porta a una
regressione, ci rende così vulnerabili che è come se tornassimo
bambini inermi di fronte a un mondo troppo difficile e pericoloso.
Quando
le persone giungono in terapia si trovano in questa complessa fase,
nel pieno di un conflitto interiore che le porta da un lato a
chiedere aiuto, dall'altro a sperimentare la frustrazione di non
farcela da soli.
L'essere
umano ha bisogno di conforto e di contatto fin dagli albori della sua
vita, quando l'avere qualcuno che si occupa di lui è una vera e
propria questione di sopravvivenza.
Nel
dolore – fisico o emotivo – questi bisogni si fanno di nuovo
prepotenti, prendono il sopravvento e nonostante i tentativi di
essere autonomi, ci permettono di entrare in relazione con gli altri
chiedendo aiuto.
Ci
sono persone per le quali è più facile, altre che vivono molto male
il ricevere, sono più abituate a dare.
Altre
ancora arrivano in terapia pensando di ottenere risposte precise,
definite e risolutorie.
Il
paziente psicoterapeutico può cominciare […] cercando di
costringere il terapeuta a dirgli cosa deve fare per essere felice e
come deve vivere senza essere pienamente responsabile della sua vita
(S.B.
Kopp “Se incontri il Buddha per strada uccidilo” 1975)
La
terapia in realtà non è un luogo di risposte, perché diventa utile
quando è un incontro, ovvero quando si fa dialogo.
Il
terapeuta, secondo la definizione dello stesso Kopp, non è altro che
un pellegrino di professione, perché proprio nella
metafora del viaggio troviamo il significato profondo di ogni
percorso psicologico.
Il
paziente diventa a sua volta pellegrino e nel viaggio che compiamo
insieme – un po' come Dante e Virgilio nella Commedia – ritrova
un senso alla propria vita, grazie alla narrazione e riformulazione
delle esperienze.
L'intreccio
paradossale di potenza e vulnerabilità, che rende un uomo
massimamente umano, dipende dal suo sapere chi è adesso lui, poiché
può ricordarsi chi è stato, e poiché sa chi spera di divenire.
Tutto
ciò deriva dalla sua capacità meravigliosa di raccontare la propria
storia.
(Kopp,
pag. 25)
Il
percorso verso il centro della terra, quel territorio oscuro e
magmatico del nostro inconscio fa emergere tutti gli aspetti del
nostro essere umani e ci aiuta a vederli con altri occhi e infine
anche ad accettarli.
Ma
la premessa a tutto questo è il volersi liberare dalle false
immagini di sé, quelle imposte dall'esterno o quelle alle quali ci
siamo adattati per essere riconosciuti, accettati, rinunciando a
energie importanti per la nostra vita.
Prima
che l'uomo possa essere libero, deve innanzitutto scegliere la
libertà. Allora comincia il lavoro duro.
(Kopp,
pag. 30)
Il
lavoro
duro
è tutto quello che sta in mezzo fra l'inizio – che non è
necessariamente la prima seduta – e la fine di una terapia.
Il
vero inizio è quando accettiamo di correre il rischio di abbandonare
le certezze conosciute e avventurarsi alla scoperta di altro,
accettando che possa essere anche doloroso. Il viaggio terapeutico è
accedere insieme a contenuti che il paziente teme di contattare da
solo, è il riscoprire il passato con nuovi occhi ma anche svelare
potenzialità nascoste, finora coperte dalla sofferenza.
E
la fine? Quando finisce la terapia?
Io
dico che finisce quando il motivo per cui la persona è arrivata è
finalmente risolto, ovvero sciolto, secondo il significato
etimologico.
Precisando
che non significa che nella realtà il problema non c'è più, bensì
vuol dire che la persona è in grado di affrontarlo e gestirlo in
autonomia, senza che questo sconvolga il suo equilibrio.
Il
nostro processo di conoscenza e ricerca di sé dura tutta la vita, ma
non credo che le persone debbano andare in terapia per sempre.
Sarebbe
come accompagnare in eterno un figlio per mano impedendogli di
camminare da solo.
Uccidere
il Buddha in strada significa distruggere la speranza che qualcosa
all'infuori di noi possa essere il nostro padrone. Nessuno è più
grande di nessun altro. Non ci sono madri e padri per gli adulti,
soltanto fratelli e sorelle. […]
Ciascuno
di noi deve rinunciare al maestro, senza rinunciare alla ricerca.
(Kopp,
pag. 168)
Ogni
persona “guarisce” nella misura in cui accoglie su di sé la
responsabilità della propria esistenza, quando da figlio o figlia
diventa uomo o donna, capace di trovare il suo significato di senso a
ciò che è accaduto, che accade e che accadrà.
Vi
lascio con una frase che racchiude in maniera sublime la
consapevolezza del processo terapeutico
“è
proprio così,
io sto cercando un tetto che mi ripari,
ma
dovrò costruirmi una casa,
pietra su pietra”
(Etty
Hillesum)
buona
settimana
virginia
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