lunedì 16 novembre 2015

Quanti modi per affrontare il dolore?



È stato un fine settimana traumatico per le nostre vite.
Ciascuno è stato fortemente toccato nelle corde più profonde della sopravvivenza e del valore della vita.
Mai come in questi momenti l'oggetto computer è diventato il tramite per dimostrare al mondo la nostra presenza: ma qui non voglio demonizzare in senso assoluto il voler mettere una foto del profilo colorata di Francia, ci sono già troppe diatribe al riguardo.
Mi sono detta che forse, così come i buddisti si ritrovano a pregare per modificare l'energia dei luoghi delle stragi, la nostra occidentalizzata civiltà fa marce di consapevolezza, oppure ogni persona esprime attraverso un'immagine simbolica il cordoglio per chi non c'è più, come se fosse un modo per dirigere intenzionalità consapevoli di pace e di cambiamento.
Ogni trauma ci mette in contatto con la vulnerabilità e la finitezza umana.
È un gioco crudele del destino, essere nel posto sbagliato nel momento giusto.
Che ci piaccia o no nessuno di noi ha il controllo su quello che sarà.
E continuamente cerchiamo modi per non contattare questa verità: il postare compulsivo è uno di questi.
È un fare qualcosa per sentire meno l'angoscia per ciò che è accaduto.
C'è da chiedersi magari, come poterlo fare per usare strumenti potenti in modo costruttivo.
Slogan razzisti o debacle per decidere se aveva ragione Terzani o la Fallaci, accuse separatorie – noi i buoni e voi i cattivi – dove ci portano?
Sono ulteriori elementi di scissione, scariche impulsive che attenuano sul momento la frustrazione ma non hanno alcun effetto riparatore, né su ciò che è accaduto, né tanto meno su quello che sarà.
Credo fortemente nella potenzialità di ciascuno di poter cambiare qualcosa ma a partire dalla propria realtà, ponendosi quesiti e cercando risposte cariche di senso.

Negli ultimi tempi sto assistendo a un fenomeno sempre più diffuso: la gestione del lutto online.
La persona non ha nemmeno fatto in tempo ad esalare l'ultimo respiro che già si leggono commenti al riguardo, manifestazioni di disagio e messaggi di commemorazione.
E non sto parlando solo di Valeria Solesin.
Parlo degli amici, parenti, conoscenti che vivono il nostro quotidiano.
Rimango inizialmente turbata quando vedo il saccheggio di immagini che popolano le bacheche di facebook per ricordare una persona cara scomparsa.
Una volta il dolore era un fatto intimo e privato.
Adesso mi chiedo, a cosa serve questa condivisione compulsiva? E soprattutto, a chi serve?
Il mio lavoro mi ha abituata a non giudicare, bensì trovare significati in ogni nuovo modo che nella società viene creato per far fronte a situazioni antiche.
Quindi spesso accade questo: mille commenti e condivisioni e poi imbarazzo e silenzio il giorno del funerale.
Purtroppo siamo tutti pronti a mostrare al mondo attraverso i social la nostra indignazione, il nostro dolore e reticenti a raccontare le stesse cose guardandosi negli occhi quando succede nella porta accanto. Perché?
Perché il contatto diretto col dolore è lacerante e senza pietà.
Guardare negli occhi chi ha perso qualcuno ci fa sprofondare nella nostra paura di perdere chi ci sta vicino, ma allo stesso tempo ci fa sentire impotenti e senza strumenti: nonostante le migliori intenzioni non riusciremo a cacciare via la sofferenza, perché anche nell'era della tecnologia il dolore resta un processo lento e soggettivo, e ognuno deve farci i conti dentro se stesso.
Il paradosso moderno però sta proprio qui: nella dimostrazione – a volte ostentazione – di un dolore urlato al mondo via internet, che diventa paura di ferire qualcuno nell'incrociare lo sguardo di un altro essere umano per dire “anche io sto male, anche io sono arrabbiato, anche io mi sento rotto dentro” oppure “io in questo momento non ho alcuna soluzione per te” “ho paura di farti del male parlandone”.
Quindi è come se affidandolo all'etere per lo meno trovasse uno sfogo, milioni di occhi che leggono ma che non guardano, ma soprattutto non rispecchiano.
È questo che in realtà paventiamo di più.
Lo specchio dello sguardo di chi accoglie le parole, materializza il dolore che invece vogliamo allontanare il più possibile.
Ma è proprio nella condivisione profonda, anche delle emozioni più difficili da raccontare che può esserci l'incontro più vero.
È solo nell'incontro di sguardi che – forse – al di là delle ideologie e delle differenze, potremo riscoprirci tutti più umani.

Buona settimana
virginia 

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