È
stato un fine settimana traumatico per le nostre vite.
Ciascuno
è stato fortemente toccato nelle corde più profonde della
sopravvivenza e del valore della vita.
Mai
come in questi momenti l'oggetto computer è diventato il tramite per
dimostrare al mondo la nostra presenza: ma qui non voglio demonizzare
in senso assoluto il voler mettere una foto del profilo colorata di
Francia, ci sono già troppe diatribe al riguardo.
Mi
sono detta che forse, così come i buddisti si ritrovano a pregare
per modificare l'energia dei luoghi delle stragi, la nostra
occidentalizzata civiltà fa marce di consapevolezza, oppure ogni
persona esprime attraverso un'immagine simbolica il cordoglio per chi
non c'è più, come se fosse un modo per dirigere intenzionalità
consapevoli di pace e di cambiamento.
Ogni
trauma ci mette in contatto con la vulnerabilità e la finitezza
umana.
È
un gioco crudele del destino, essere nel posto sbagliato nel momento
giusto.
Che
ci piaccia o no nessuno di noi ha il controllo su quello che sarà.
E
continuamente cerchiamo modi per non contattare questa verità: il
postare compulsivo è uno di questi.
È
un fare qualcosa per sentire meno l'angoscia per ciò che è
accaduto.
C'è
da chiedersi magari, come poterlo fare per usare strumenti potenti in
modo costruttivo.
Slogan
razzisti o debacle per decidere se aveva ragione Terzani o la
Fallaci, accuse separatorie – noi i buoni e voi i cattivi – dove
ci portano?
Sono
ulteriori elementi di scissione, scariche impulsive che attenuano sul
momento la frustrazione ma non hanno alcun effetto riparatore, né su
ciò che è accaduto, né tanto meno su quello che sarà.
Credo
fortemente nella potenzialità di ciascuno di poter cambiare qualcosa
ma a partire dalla propria realtà, ponendosi quesiti e cercando
risposte cariche di senso.
Negli
ultimi tempi sto assistendo a un fenomeno sempre più diffuso: la
gestione del lutto online.
La
persona non ha nemmeno fatto in tempo ad esalare l'ultimo respiro che
già si leggono commenti al riguardo, manifestazioni di disagio e
messaggi di commemorazione.
E
non sto parlando solo di Valeria Solesin.
Parlo
degli amici, parenti, conoscenti che vivono il nostro quotidiano.
Rimango
inizialmente turbata quando vedo il saccheggio di immagini che
popolano le bacheche di facebook per ricordare una persona cara
scomparsa.
Una
volta il dolore era un fatto intimo e privato.
Adesso
mi chiedo, a cosa serve questa condivisione compulsiva? E
soprattutto, a chi serve?
Il
mio lavoro mi ha abituata a non giudicare, bensì trovare significati
in ogni nuovo modo che nella società viene creato per far fronte a
situazioni antiche.
Quindi
spesso accade questo: mille commenti e condivisioni e poi imbarazzo e
silenzio il giorno del funerale.
Purtroppo
siamo tutti pronti a mostrare al mondo attraverso i social la nostra
indignazione, il nostro dolore e reticenti a raccontare le stesse
cose guardandosi negli occhi quando succede nella porta accanto. Perché?
Perché il
contatto diretto col dolore è lacerante e senza pietà.
Guardare
negli occhi chi ha perso qualcuno ci fa sprofondare nella nostra
paura di perdere chi ci sta vicino, ma allo stesso tempo ci fa
sentire impotenti e senza strumenti: nonostante le migliori
intenzioni non riusciremo a cacciare via la sofferenza, perché anche
nell'era della tecnologia il dolore resta un processo lento e
soggettivo, e ognuno deve farci i conti dentro se stesso.
Il
paradosso moderno però sta proprio qui: nella dimostrazione – a
volte ostentazione – di un dolore urlato al mondo via internet, che
diventa paura di ferire qualcuno nell'incrociare lo sguardo di un
altro essere umano per dire “anche io sto male, anche io sono
arrabbiato, anche io mi sento rotto dentro” oppure “io in questo
momento non ho alcuna soluzione per te” “ho paura di farti del male parlandone”.
Quindi
è come se affidandolo all'etere per lo meno trovasse uno sfogo,
milioni di occhi che leggono ma che non guardano, ma soprattutto non rispecchiano.
È
questo che in realtà paventiamo di più.
Lo
specchio dello sguardo di chi accoglie le parole, materializza il
dolore che invece vogliamo allontanare il più possibile.
Ma
è proprio nella condivisione profonda, anche delle emozioni più
difficili da raccontare che può esserci l'incontro più vero.
È
solo nell'incontro di sguardi che – forse – al di là delle
ideologie e delle differenze, potremo riscoprirci tutti più umani.
Buona
settimana
virginia
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