mercoledì 2 marzo 2011

Uscire da una dipendenza



Sapete che non mi piace parlare degli argomenti “psi” come ne parlerebbe un libro o un manuale, potrei sì descrivervi le teorie dell'attaccamento, i traumi dell'infanzia, citare teorie sull'autostima o altro ancora... ma a me viene meglio dare libertà alle dita che scorrono veloci su questa tastiera e lasciar parlare l'esperienza, accarezzare racconti, ritagliare storie e spalmarle di emozioni, perché questa infondo è la vita...

Tema difficile la dipendenza.
Che sia da una persona, da una sostanza, dal cibo, da un comportamento, da tutto ciò di cui non si può fare a meno...
E' uno stato d'animo complicato e caotico, straziante a volte, pieno di sensi di colpa,  molto spesso, che  si consolida come una perseverante abitudine a farsi del male.
Vorrei, ma non ci riesco...” : bisbigliata appena, interrotta da singhiozzi o urlata a squarciagola, è la frase più affermata in questi casi.
Vorrei smettere,  vorrei lasciarlo, vorrei cambiare, vorrei, vorrei, vorrei... è il condizionale che ci frega, perché nel qui e ora, in realtà sto dicendo che “non ci riesco”.
È buffo come il verbo dipendere, che induce di per sé un senso di prigionia e catene, viri di significato quando è usato in maniera impersonale in una risposta, aprendo a diverse possibilità. Io dipendo da qualcosa o qualcuno. Ne voglio uscire? Dipende.
Quindi la domanda è: lo voglio davvero? Oppure è talmente forte il legame con questa cosa che riesce ad appagare dei bisogni – che magari io stessa ignoro – i quali mi portano automaticamente a perseverare?
Cosa succede dentro di me all'idea che questa cosa finisca? Quali velenose emozioni e sentimenti mi suscita?
Paura.
Paura di non farcela, di non essere all'altezza, di non riuscire a dimostrare al mondo che si sbaglia, di cambiare quelle certezze che se pur sbagliate mi fanno sentire integra in qualche modo...
Vergogna.
Vergogna di riconoscere che forse avevano ragione loro, che ho un problema e non volevo ammetterlo, di constatare che mi sto raccontando bugie da troppo tempo (o che me le faccio raccontare assecondando...), per essermi resa ridicola, fragile, inerme...
Dolore.
Dolore per dover affrontare una perdita, elaborare un lutto, nell'affrontare episodi della mia vita che mi hanno portato a essere quella che sono, per il riconoscere che ho fallito...
Rabbia.
Rabbia per chi non c'è o non c'è stato, per chi c'era e mi ha ferito, per chi ho paura che mi abbandonerà se solo espongo le mie ragioni...
Colpa.
Colpa verso chi mi è stato vicino e ha continuato ad avvertirmi del pericolo, verso me stessa, per non essermi amata di più, verso gli altri, per non aver saputo dare loro quello di cui avevano bisogno o averli tiranneggiati insieme alla mia incapacità di uscirne...
E poi? Poi, dopo aver dato fondo a tutto questo?
A patto di esser riuscita con coraggio a scaraventare fuori dall'anima i suoi pericolosi contenuti... che cosa mi rimane?
C'è il vuoto. Il nulla. L'abisso.
Senza quella persona, quella sostanza, quel comportamento … io non sono niente.
Ecco il fondo di tutta la questione.
Ecco l'angoscia che mi impedisce di rinascere.
Ecco il limite, il filo spinato che delimita i miei confini con la gioia.
Non so che io stessa ho in mano le tenaglie per rompere quella rete che mi imprigiona.
Non so che posso già usarle.
Non so che infondo sono libera.
Libera.
Non mi sento così da molto tempo. Forse non lo sono mai stata.
Libera.
Fa uno strano effetto: è un formicolio sottopelle, l'impulso di gridare, una corsa per i campi, le lacrime che premono per vedere la luce.
In effetti, non è poi così buio e vuoto, qua fuori.
E io non sono così male come credevo.
Io, semplicemente, sono.
Anzi.
Io, ho il diritto di essere.
Posso.
Posso volere.
Posso scegliere.
E questo è il nuovo inizio, tutto da scoprire.
virginia

ps. Un grazie alle persone che ho accompagnato nel loro percorso di rinascita, senza le loro anime svelate, queste righe non sarebbero potute esistere.

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